Grizzly Bear
Veckatimest
Partiamo con la profezia del giorno. A prescindere da chi si troverà a dover gestire il malloppo di questo ennesimo caso “internettaro” (quelli della Warp già iniziano a leccarsi i baffi), “Veckatimest” sarà il manufatto indie per eccellenza del 2009. Come se non bastasse, Pitchfork lo eleggerà miglior disco degli ultimi cinquant’anni, secondo solo all’ultimo Animal Collective, e il leader dei Grizzly, Edward Droste, verrà insignito dell’onorificenza di genius maximus per il più alto servigio reso al mondo della musica dall’invenzione (?) della scala pentatonica. Ecco che, magicamente, pare realizzata la perfetta compresenza di tutte le condizioni necessarie affinché questo disco mi stia sulle scatole. Immaginate quindi lo sgomento nel trovarmi di fronte a un (capo)lavoro di tal pregio, quasi che l’ultima fatica del quartetto di Brooklyn incarni, messianica, la giusta punizione per il mio scetticismo.
Ci ho riflettuto, e sono giunto alla conclusione che i motivi per cui lo amo sono quelli “sbagliati”: ossia la sua viscida inintelligibilità, la complessità strutturale (al primo ascolto la mente è andata a ritroso fino ai Prefab Sprout di “Swoon”), l’interlocutoria chimica degli incastri armonici. Elementi che forse saranno percepiti come “piccoli ma trascurabili difetti”, almeno dalle moltitudini di ascoltatori decisi a inserire di forza l’opera nell’inflazionato filone alt-folk. A essere onesti, anche i paragoni spesi finora per inquadrare la sostanza di “Veckatimest” non reggono proprio: questo è il disco che i Fleet Foxes possono solo sognarsi di notte, e che gli Animal Collective potrebbero incidere se sapessero coniugare la loro attitudine arty all’effettiva capacità di scrivere una canzone pop (la qual cosa è meno probabile di una nevicata in agosto).
Non che la musica qui proposta sia pop puro e “semplice”, intendiamoci. È proprio questo, anzi, il nodo gordiano da affrontare fin d’ora a testa alta. I Grizzly Bear attuano un radicale mutamento dell’approccio col quale, negli ultimi tempi, si è affrontata la questione “ripescaggio di Beach Boys & Co”: non più pretesto per cazzeggio freak, né per l’ennesimo, insipido piatto alt-folk, bensì per una costruzione sostanzialmente “progressiva”, come una rilettura canterburiana del baroque e folk-pop di fine ‘60s, con farfalle sunshine a svolazzare burrose nel singolo “Two Weeks” (gli XTC di “Apple Venus Vol. 1” portati in paradiso) e cieli malconci che si colorano di beige androgino in “Ready, Able”. I brani si accartocciano in vie e viuzze (la policroma “Southern Point”, quasi “Judy Blue Eyes” di Stephen Stills riscritta dai Caravan), mappature sbilenche (“Fine For Now”), articolazioni sconnesse (l’inquietante ballata “Hold Still”); o magari sembrano stabilizzarsi sulla via maestra e quando meno te l’aspetti girano l’angolo, come rincorrendo intuizioni istantanee destinate a non avere seguito (la soffice trapunta di “All We Ask”).
Vogliamo parlare poi di produzione e arrangiamenti? Volentieri. I cori, innanzitutto: tendenti più a una sorta di polifonia neo-gregoriana che alla gagliarda veemenza dei Mamas & Papas (“Cheerleader”, il “lacrimosa” a tempo di ragtime “Dory”), arditi fino a sfiorare il preziosismo. Le ingenuità elettroniche del precedente “Yellow House” (Warp, 2006) sembrano poi quasi del tutto accantonate, in favore di una riscoperta verginità dello spazio sonoro, colmo sì di riverberi spectoriani e suoni immaginifici (a produrre è ancora una volta il bassista e polistrumentista Chris Taylor), ma mai contraddetto nella sua intima, curatissima levità. Anche l’orchestra, arrangiata da Nico Muhly, viene utilizzata con gusto ma senza strafare, secondo il funzionalismo proprio del Bauhaus (la scuola d’arte, non il gruppo), e quindi in porzioni singole di legni molto minimal e archi ad ampio spettro cromatico. Fa eccezione una “I Live With You” gonfia e grottesca, imbevuta della magmatica caoticità appartenuta a un genio pop del calibro di Van Dyke Parks (hai detto niente…).
Su “Veckatimest” (pare sia il nome di un’isoletta del Massachusetts) la band regredisce e avanza per mezzo del medesimo, precisissimo colpo di reni. Sì, il disco è bello ingioiellato, tirato a lucido, “restaurato” come una vecchia maliarda prima del brunch pomeridiano a Porto Cervo; eppure “sporcato” dalla batteria “primitiva” di Christopher Bear, dal chitarrismo nervoso di Droste (ascoltate “While You Wait For The Others” per apprezzare al meglio il personalissimo timbro del suo strumento: riverbero corto, ampia risonanza, strumming metallico), dalle suggestioni pittoriche delle tastiere, dalle armonizzazioni cristalline delle voci (sublime quella del secondo songwriter Daniel Miller). Un tragitto che procede per tic nervosi, a tratti parallelo alla poetica silvestre degli Akron/Family, e che nel pianismo della conclusiva “Foreground” calpesta le ceneri di quella dolorosa meraviglia un tempo nota come “catarsi”. Procedimento, quello esposto in “Veckatimest”, che non smantella la forma, bensì la esalta nella sua poliedricità. Nemmeno un castoro “edificatore” avrebbe saputo far meglio di quest’orsacchiotto dagli artigli rubati a Freddy Krueger. Ora però basta parole, ascoltiamo e gioiamo. E, per una volta, cerchiamo di sopportare l’hype.
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