Rings
Black Habit
Hanno tratto preziosi insegnamenti le Rings dalla prima esperienza discografica sotto il nome di First Nation (2006), il cui disco omonimo mostrava senz’altro fattori interessanti ma appena abbozzati e persi in un’immaturità evidente.
Black habit invece, è bene dirlo subito è un capolavoro. Un diamante fine e lucido realizzato dal trio newyorkese composto da Nina Mehta (chitarra), Abby Portner (batteria) e Kate Rosko (tastiere). Tutte donne, nella migliore tradizione di gruppi come Sleater Kinney, X-Ray Spex, L7.
E l’effetto è dirompente, a cominciare da All right peace: rivoli di note che accompagnano in un percorso comune voci ora calde ora pungenti, acute e ispide. Vortici chitarristici estraniano in una danza sonora frenetica e barocca. Come se gli Arboretum si fossero calati in danze slave lasciando il cantato a Joanna Newsom.
Musica strana quella delle Rings, e tremendamente affascinante. Mom dance segna melodie atipiche che sembrano scontrarsi armoniosamente in un art-folk cabarettistico ed espressionista da cui emergono un cantato prorompente e centellinate trame ellittiche.
L’introduzione di Is he handsome è dominata da falsetti sovrapposti dietro i quali si gioca con l’effettistica digitale. Tutto molto onesto, giocoso e divertente finchè si fanno largo trame pianistiche degne del miglior Yann Tiersen. Immagini di favole ottocentesche sognanti e cariche di feste zingare. Sensibilità stralunata e fanciullesca. Sembra di stare in un film del regista tedesco Wiene tratto da un romanzo di Carroll.
Manca la violenza punk, e tuttavia si può ritrovare un certo fattore intellettualistico preso in prestito dal post-punk più raffinato (Slits, Raincoats). Estrapolato però fino a riplasmarlo radicalmente in un folk ipnotico e circolare vagamente psichedelico. Forse volendo definire la musica ci si può avvicinare a qualcosa del genere. Eppure già Scape aside muta pelle: vibrante e violenta, chitarra rude e corposa, cantato sensibilmente potente e punk, aria cupa, dantesca e anarchica.
Capaci di cambiare continuamente volto le Rings. E già con Double thanks ci spostiamo dalle parti di Shannon Wright: maggiore intensità emozionale, maggiore spiritualità vocale, maggiore melodia pianistica. La musica sembra perdersi, frantumata in riquadri di contorno preziosi e incantevoli. L’effetto è di avvicinarsi al sublime.
Più lineare, semplice ed essenziale You remind me, in cui torna prepotente protagonista la lirica accompagnata da fragili rintocchi di piano.
Tone poem è un’altra radicale esperienza: quasi un rito mistico-tribale in bilico tra primitivismo esotico e psichedelia freak. L’uso delle voci fa pensare ad un ascolto ragionato di Bjork ma a risuonare nell’aria è soprattutto la lezione di Animal Collective e Panda Bear, tra l’altro compagni di etichetta (la Paw Tracks). Teepee è caratterizzata da una particolare regressione di una voce ora talmente infantile da non poter procurare indifferenza: o la si ama o la si odia. L’ennesima conferma di un art-folk barocco in cui a trionfare sono anche le trame pianistiche soffuse e curatissime della Rosko.
Non resta allora che ringraziare New York che ci regala un'altra stratosferica band. Sempre più capitale dell’avant-rock. Thank you.
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