Panda Bear
Tomboy
Lungi dal cadere in qualsiasi tentazione legata al mercato e alle sue diaboliche leggi di sottrazione nei confronti dei vari coefficienti di creatività, Panda Bear battezza il biennio di pausa finora intrapreso dagli Animal Collective con la sua nuova e largamente anticipata fatica su lunga distanza dal titolo, vagamente cameratistico, “Tomboy”.
Preceduta da diverse release di singoli episodi estratti dalla tracklist finale, questo nuovo lavoro del poliedrico vocalist e strumentista americano era atteso al varco con spasmodica e religiosa attesa, visti i risultati del precedente “Person Pitch” ritenuto da 101 critici su 100 un disco quantomeno “monumentale” e non a torto.
Nel frattempo qualcos’altro di monumentale era uscito, ma a nome di tutta la band, quel “Merriweather Post Pavillion” che riuscì nell’epica impresa di far quadrare il cerchio compositivo con numerosi sensi compiuti, laddove la caratteristica fondamentale del sound tipico del combo di stanza a Baltimora era l’affascinante irrisolutezza della miriade di spunti e idee sparsi nella loro discografia.
Cosa aspettarsi dunque, dall’album che avrebbe seguito a ruota due simili mostri sacri del synth-pop psichedelico moderno? Beh senza dubbio una continuità qualitativa e delle ovvie e ulteriori sperimentazioni mirate ad arricchire e rinfrescare un marchio di fabbrica nato ormai da un decennio che conta all’interno della sua libreria centinaia di spartiti.
“Tomboy” gode della voce sciamanica di un Lennox capace di ipnotizzare anche con dei semplici gorgheggi e che stavolta, più delle precedenti, riesce a calamitare e sostenere gran parte delle intuizioni melodiche e astrali che compongono il disco.
Disco che risulta senz’altro più diversificato rispetto al precedente album solista di Lennox ma che segue piuttosto da vicino le orme, soprattutto ritmiche, dell’ultimo lavoro di gruppo. Ma anche in riferimento ad una smaccata preferenza per un concetto, seppur abbastanza deviato, di forma-canzone.
Parzialmente deficitario dal punto di vista dell’atmosfera e del concept di fondo, “Tomboy” dà la sensazione di esser stato più compilato che concepito nell’insieme, e pur senza vistose cadute di tono, gioca sull’impatto vincente di taluni episodi di alto livello (su tutti “You can count on me”, “Benfica”, “Last night at Jetty” e la titletrack) i quali hanno sì il pregio di promuovere il repeat per numerose volte ma sfidano l’arma a doppio taglio di mettere in risalto l’handicap di quelle canzoni meno compiute e corpose.
Se a questo aggiungiamo delle idee di fondo non clamorosamente differenti da quanto proposto finora, se non nel mood meno enigmatico di buona parte del disco, arriviamo alla facile conclusione che “Tomboy” non manca di tocchi di alta classe ma nemmeno di non trascurabili istanti di monotonia che non spingono l’ascoltatore a preferirlo ai suoi predecessori.
Tweet