Grizzly Bear
Shields
La percezione prima è ricchezza esagerata, ma a questo i Grizzly Bear ci avevano già abituati. Giunti al loro quarto album in studio, la band di Brooklyn amplifica il concetto folk manierismo e anima indie nel profondo ma smarrisce qualcosa per strada, qualcosa che va oltre la tecnica e la bravura: perdono lascolto. Perché cosera Veckatimest se non lestasi del musicato e del sentito, diletto tanto del musicista quanto dellascoltatore?
Ecco, in questo Shields i nostri Grizzly Bear non si pongono quasi mai al di là della barriera di fruizione, non si cambiano dabito, non scendono dal palco tra la folla, rimangono comodi nelle loro vesti da musicisti camicie a quadri, bretelle, maglieria impecorata e hipsterume vario e si limitano a suonare divinamente. Perdono il gusto di sentirsi, rimangono a tratti schiavi delle loro alte capacità, e non scendono più a patti col pop. Qualcuno potrebbe obiettare che non sono mai venuti a contatto con un certo alleggerimento delle melodie: ed è vero, la componente barocca e perfezionista è stata trait d'union di tutti i loro lavori. Eppure dovè che Veckatimest vinceva a mani basse? Proprio nel mitigare certo folklore elaborato con frammenti di quel pigro e indolente pop da camera che aleggiava tra le soffitte in polvere di Yellow House. Si limitano a suonare divinamente dicevamo proprio perché i Grizzly Bear rimangono melodicamente impeccabili: ritagli canori perfetti (il cantato chiaroscuro di Whats Wrong, forse la più raccolta dellopera), partiture chitarristiche eccelse (lindolenza fumosa di Gun-Shy, lunica canzone veramente pop nella scrittura, e tra le tre migliori), preziosi controtempi ritmici (la batteria burrascosa di Yet Again e il suo cantato vibrante, altro momento doro), lafflato spirituale che fa osmosi a piccole dosi (tutte riversate in una Speak in Rounds mistica e incandescente laltra bellissima dellalbum che riprende a poco a poco gli accordi della cara Southern Point che fu).
Tutte, dalla prima allultima, canzoni musicalmente ineccepibili; ma gonfie, per di più, come mai accaduto nella loro carriera. Giri a vuoto, infatti, ce ne sono parecchi, arpeggi ridondanti quanti ve ne pare (non ce ne vogliano Sun In Your Eyes e Half Gate, ma davvero sembrano i punti emotivamente più bassi della loro storia artistica), momenti noiosi (certo ascetismo esangue se lo potrebbe permettere solo Matt Elliott, The Hunt è caccia senza preda), mezze-canzoni (la stessa elettrizzante ed enfatica Sleeping Ute, lanciata come singolo promozionale, non convince appieno, ma per metà) e insomma un po di eccessiva vanità qua e là (pure la breve Adelma, per dire, esercizio di stile abbastanza inutile).
Un giudizio dinsieme verterebbe quindi verso il basso, se non fosse così difficile dare linsufficienza a un gruppo tanto preparato e artisticamente maturo. Ma un po come gli Dei dell'antica Grecia che da lassù mangiavano cose divine, dicevano cose divine, facevano cose divine, così i Grizzly Bear, da sopra il palco, si sono persi per adesso tutto il bello dellimperfezione e dellirripetibilità mortale. E tutta la passione.
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