Gentle Giant
Three Friends
Fenomenale gruppo del quale non sarà mai abbastanza glorificato l’impatto sulla musica rock e sufficientemente rimpianta la genialità, i Gentle Giant sono stati diabolicamente personali, maledettamente bravi e pure dannatamente trascinanti dal vivo, situazione nella quale riuscivano senza il minimo problema a riprodurre, e volentieri ad arricchire ed ulteriormente complicare, le intricatissime ma scorrevoli, intriganti, trascinanti partiture melodico/ritmiche escogitate in studio, aggiungendovi per sovramercato ulteriori dosi di humour ed istrionismo ed un comunicativo senso di divertimento e piacere. Diavolo di gente che ha avuto pure il buon gusto di mollare e per sempre una volta maturate le delusioni per il relativo riscontro commerciale e conseguentemente andate in crisi voglie ed energie, dopo avere inoltre appurato che non vi erano spazio ed opportunità per eventuali riciclaggi mediante cambiamenti drastici di rotta musicale.
Ma che esperienza fronteggiare i Gentle Giant sul palco!: visto Ray Shulman che mentre canta la sua parte in uno dei tostissimi cori polifonici loro tipici, eseguendo allo stesso tempo una vorticosa linea di basso completamente diversa in tutto, tempo note e accenti rispetto a ciò che sta cantando, tiene ancora un angolo del cervello libero per tenere lo sguardo alzato e fare l’occhiolino alle ragazze nelle prime file! Visto Kerry Minnear zompettare, più o meno nello stesso quarto d’ora, fra Hammond pianoforte vibrafono xilofono minimoog clavinet violoncello Stratocaster e flauto dolce, non perdendo mai una nota, in completo controllo, con un senso del tempo e del contrappunto, una scelta di suoni, una miscellanea di stili da lacrime agli occhi. Visto il batterista tenere solidamente un semplice tempo in quattro quarti mentre davanti a lui c’è l’inferno ritmico con Derek Shulman che canta in 6/8 con addosso il basso del fratello, impegnato al momento a far svolazzare un violino elettrico e poi a soffiare dentro una tromba! Intanto che il chitarrista Gary Green e Minnear viaggiano in sei quarti e tutti che si disperdono nello spazio ritmico per rincontrarsi ogni volta, felicemente e ciclicamente, dopo dodici battute! Visti cantante, chitarrista, bassista e tastierista, a metà di un brano, afferrare ciascuno un flauto dolce ed imbastirvi al volo la stessa melodia polifonica e poliritmica che avevano appena eseguito con i rispettivi strumenti principali, mentre il batterista passa invece a picchiare su di uno xilofono, salvo poi riesplodere con gli strumenti elettrici ed i tamburi per il proseguo del brano.
Tutt’altro che giullari però i Gentle Giant: la loro arte poteva concedersi dal vivo qualche gigionata ma quello che ci hanno lasciato in studio (undici album) è solida musica progressive senza possibilità di scampo: impossibile non stimare a fondo almeno i primi sette lavori usciti tra il 1970 ed il 1975. “Three Friends” è il terzo di questa serie, con un concept di base che è tanto semplice quanto suggestivo, toccando per certo l’esperienza di chiunque: tre amici, uniti nella giovinezza dalla stessa esperienza scolastica e ludica, separati da adulti dalle scelte e dai casi della vita, col primo di essi che diviene un operaio, il secondo un pittore ed il terzo un funzionario, un “colletto bianco”.
La “Prologue” d’apertura serve ovviamente a presentare la storia ma è anche perfetta introduzione all’impagabile universo sonoro dei Gentle Giant: dopo un’assolvenza fuorviante di terzine si impone un groove in quattro quarti molto deciso, con suoni inauditamente “grossi” per l’epoca. Sul pedale tenuto dal basso e dalla mano sinistra del pianista la chitarra solista di Green conduce, a tutto volume e in seguito doppiata dal minimoog, un lungo tema che ha il senso armonico del jazz ma il suono risoluto del rock, trasmettendo efficacemente solennità e potenza consone a un’intro, un inizio d’opera. Poco più in là su un Mi grave del basso tutto si acquieta ed entrano le voci. Stupende: Phil Shulman (terzo fratello e l’uomo dei fiati, nel gruppo) inizia a raccontare dei tre giovani amici e subito al secondo verso viene circondato dagli altri tre cantanti, che lo contrappuntano muovendo le loro parti da battute diverse, con un’onda armonica di mirabile effetto, fluttuante sopra la ritmica a sua volta tenuta sospesa dal basso che “stringe”su di un intervallo di un semitono. Dopo un paio di strofe parte un botta e risposta fra basso e synth, questo settato su un registro acuto e di gran gusto. Null’altro intorno all’inizio, solo questi due suoni lontanissimi in altezza che parlano e giocano (come gli ancor giovani protagonisti del concept…) poi pian piano il multitraccia si popola di altri contrappunti, di chitarra e di altre tastiere, sempre più fitti finché si ricade nel tema jazz/rock d’inizio, portato ad libitum fino alla sua dissolvenza. Da urlo! Classe personalità e inventiva dispiegate a piene mani, un’atmosfera magica, una musica piena di consistenza e seduzione.
Al vibrafono di Kerry Minnear è delegato l’esordio del secondo pezzo “Schooldays”. Lo stesso tastierista, colla sua voce delicata e clamorosamente antica si può dire medievale, intona il testo costantemente inseguito sul canale opposto dell’immagine stereo da Phil Shulman, anch’esso capace di registri delicatissimi: è spettacolare l’effetto creato dai due, specie in cuffia. Sotto intanto la ritmica si muove felpata in dieci ottavi ma per il ritornello cambia in 14/8, e mentre tutti cantano serafici non vi dico a questo punto cosa s’inventa il basso, praticamente corre dietro al charleston ma disegnando una melodia amplissima, astrusa, impensabile, roba da Bach! Un mirabile saggio di competenza del contrappunto da parte di Ray Shulman, spalleggiato da quell’ottimo batterista che è Malcom Mortimore, purtroppo presente solo in questo disco perché poi avrà un incidente e dovrà essere sostituito. Malcom teneva uno stile jazzistico particolare, caratterizzato da polsi ultrasensibili che gli consentivano interventi sul rullante di inusitata frequenza e precisione ed un totale controllo degli accenti, suggeritigli in quantità industriale dalle esecuzioni dei virtuosi compagni a lui d’intorno. “Schooldays” progredisce in modo sempre più etereo e libero ma diabolicamente poi s’impenna con l’arrivo di un vorticoso assolo di vibrafono in jam session. Minnear è scatenato e trascinante e la ritmica fatica quasi a stargli dietro, le braccia del mingherlino e talentuosissimo tastierista mulinano a frequenze da infarto fino alla chiusura, verso l’ultimo ritornello. Godibile in toto e riuscitissima insomma la trasposizione musicale quivi realizzata della spensieratezza e della leggerezza dell’età giovanile.
Tocca poi, in totale contrasto, alla spigolosità e durezza di “Working All Day”, l’episodio che vede protagonista l’amico diventato operaio. La sua realtà quotidiana faticosa e ripetitiva è descritta puntualmente da una musica rumorosa e sagomata, prettamente rock, disegnata dall’aspro procedere del clavinet e dagli stacchi rockblues della Gibson di Green. Derek Shulman, la voce rock del gruppo la più potente e forte, urla il testo acido e corrosivo in mezzo al farraginoso e pesante incedere degli strumenti.
Il brano seguente è il più noto dell’album e tratta dell’amico divenuto pittore. In “Peel The Paint” è di nuovo Phil Shulman ad incaricarsi inizialmente del canto in un ambiente sonoro sommesso e sospeso grazie all’uso del pizzicato da parte dei suoi compagni. Tale atmosfera indugia a lungo per essere poi clamorosamente travolta dall’ingresso mortifero del chitarrone hard rock di Green, che imposta un riffone memorabile con il quale va a misurarsi la voce altissima di Derek…e vince Green che come premio può partire in un lungo assolo autenticamente psichedelico in virtù delle amplissime ribattute d’eco, però Derek ha un colpo di coda e torna per un’ultima strofa a concludere questa specie di mini suite, fra le pagine più spettacolari della carriera del Gigante Gentile ed infatti costantemente in scaletta nei concerti.
“Mister Class And Quality?” si riferisce invece, ironicamente, al “colletto bianco”, l’amico che ha fatto carriera negli affari. È il violino (Ray Shulman ne è diplomato al Conservatorio) a menare allegramente le danze, mentre di nuovo suo fratello Derek ne è voce solista. Il ritmo è sostenuto, relativamente lineare e costante specie per gli standard di un gruppo come questo. Dopo la parte cantata i solisti cominciano gagliardamente ad alternarsi, prima un sax con il wah wah, poi l’organo…alfine si impone la chitarra che abbaia pentatonicamente nello stile rock blues che caratterizza questo ottimo musicista capace, a fronte di una preparazione musicale del tutto diversa e molto meno ortodossa dei suoi compagni, di integrarsi mirabilmente nel tessuto compositivo ed anzi di dare basilari contributi di creatività e fascino. Fantastico il suo assolo in questo frangente (il migliore dell’album), di nuovo carico di eco ribattuto nonché di effetto leslie: una perla, con scelte di note sorprendenti, uno dei tanti vertici dell’opera.
Arriva poi il gran finale con “Three Friends” (la canzone), a sorpresa mentre ancora il violino gorgheggia leggero e la ritmica vola serrata e swingante. Ad una battuta, senza soluzione di continuità, l’ambiente sonoro viene frantumato e ricostruito all’istante: siamo catapultati dentro una cattedrale gotica le cui porte ci vengono spalancate improvvisamente. Un coro celestiale costruito con tonnellate di sano e solido riverbero analogico e l’uso magistrale delle tonalità liturgiche del vecchio buon Hammond imbastiscono quattro trionfali minuti finali. Lo sciabordare delle quattro magnifiche voci e dell’organo a tutta manetta, che paiono veramente infrangersi contro le volte e le navate di una altissima chiesa, viene reso al 1000% progressive dalla lunga frase jazz (sic!) di sostegno tenuta all’unisono da basso e chitarra. Un vero paradiso, per entrare nel quale è necessario e sufficiente transitare quanto meno dal brano precedente, se non dall’inizio dell’opera, per apprezzarne appieno lo stupefacente effetto d’ingresso.
Mitici Gentle Giant! Al presente Derek Shulman è titolare di un’importante casa discografica americana (fece subito carriera lanciando negli anni ottanta…Bon Jovi, pensa te!). Suo fratello Phil dopo essersi ritirato assai presto dal business musicale (dopo il loro quarto album Octopus”) e ripreso l’attività di insegnante ora è in pensione e strimpella con qualche gruppetto nei localini di Glasgow, città natale degli Shulman. Ray invece è ancora attivo musicalmente, più che altro come produttore, altrettanto Gary Green anche se a livelli semiprofessionistici. Kerry Minnear si è molto perso in ambiti e attività iper religiose e comunque non sta combinando niente di notevole, una vera disdetta per questo mezzo genio a parere di chi scrive il migliore tastierista progressive che ci sia stato e ci sia. Mortimore fu come detto una fulgida meteora, mentre il loro batterista storico John Weathers (tutto da godere anche lui, un pelatino che picchiava come un fabbro, preciso e diretto come una spada mentre intorno a lui gli altri quattro lavoravano di fino per mandarlo fuori tempo ma non c’era verso!) ha smesso di suonare da tempo perché gli è venuta…l’artrite! Mannaggia al tempo che passa, e che dio li benedica tutti, guai a non conoscere questa musica.
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