Pink Floyd
The Piper at the Gates of Dawn
Alienazione totale. È con questa espressione che si può descrivere in breve un disco complesso come “The piper at the gates of dawn”. Perché il primo album dei Pink Floyd – che in seguito avrebbero imboccato lentamente la strada del progressive, poi del concept-album e poi ancora delle canzoni fruibili e canticchiabili (vedere “Another brick in the wall” e “Comfortably numb”) fino al tracollo post-watersiano – è così denso di immagini non riassumibili in un'unica visione (come invece accadrà da “The dark side of the moon” in poi) che fanno di esso un album unico, e vedremo perché.
I Pink Floyd si costituiscono nel 1965 con la seguente formazione: Syd Barrett (chitarra ritmica, voce), Bob Klose (chitarra solista), Roger Waters (basso, voce), Richard Wright (tastiere, voce), purtroppo deceduto in questi giorni dopo un’improvvisa malattia, e Nick Mason (batteria). Il nome lo sceglie Barrett, il leader indiscusso, come omaggio a due bluesmen da lui molto amati (Pink Anderson e Floyd Council). In seguito all’immediato abbandono di Klose, in rotta con Syd poiché orientato verso altri stili musicali quali il jazz e il rythm & blues, pubblicano due anni dopo il loro primo 45 giri contenente la storica “Arnold Layne”, brano non tanto bello in sé per sé quanto importante perché segna l’inizio di una nuova era musicale. E, sempre nello stesso anno, dopo aver pubblicato un altro 45 giri, nel quale viene inclusa la altrettanto famosa “See Emily play”, Syd Barrett si decide a incidere il primo album vero e proprio: da lì in avanti – anche grazie ad altri gruppi che aderiscono più o meno artisticamente al movimento della psichedelia – la musica non sarà più la stessa.
“Il pifferaio alle soglie dell’alba” – titolo del settimo capitolo del libro “Il vento fra i salici” di Kenneth Grahame – è in pratica il primo e ultimo disco dei Pink Floyd di Syd Barrett, che nel successivo “A saucerful of secrets” (1968) scrive e canta soltanto “Jugband blues”, suona la chitarra in un paio di pezzi e scompare, lasciando il testimone a David Gilmour (chitarrista di ben altro stile) e dedicandosi dapprima a qualche attività da solista, e successivamente, in preda alla pazzia, alla pittura, estraniandosi dal resto del mondo fino alla fine dei suoi tristi giorni, il 7 luglio 2006.
L’album, pur non essendo proprio perfetto dal punto di vista compositivo, è decisamente innovativo quanto a sonorità e liriche. I brani che lo compongono possono essere suddivisi in due categorie: alcuni appartengono al genere che sarà poi definito “space rock”, che vedrà protagonisti i Floyd anche nell’immediato dopo-Barrett, mentre altri sono dei raccontini infantili apparentemente dolci ma che in realtà denotano anch’essi un qualcosa di psichedelico, il tutto rifinito dall’incommensurabile Syd.
Una normale copertina di presentazione (nome della band a caratteri cubitali e vólti dei quattro membri, niente titolo del disco menzionato invece nel retro) dà l’illusione di qualcosa che normale non è, e ci si accorge sfogliando il libretto (per chi, come me, possegga il CD) o guardando all’interno (per tutti i meno giovani o i nostalgici che possiedono il vinile) dove si notano disegni e, per chi sia abile nel comprendere la lingua inglese, testi (anche questi di Syd Barrett) entrambi assai inquietanti.
Due in particolare sono i cavalli di battaglia di questa preziosa opera d’arte; l’apertura dell’album è affidata alla splendida “Astronomy domine”: una voce spaziale introduce l’irreale basso di Waters, poi Wright esegue delle sinistre note (simili a quelle di “Echoes” di quattro anni più tardi), quindi entra in scena in modo aggressivo Mason e la sua batteria, infine Barrett con la sua chitarra isterica ed alienata e con la sua voce molto melodica che recita liriche che sognano la conquista dello spazio e dei pianeti del sistema solare. Signori, ecco a voi i Pink Floyd, uno per uno, nella loro magnificenza. In mezzo un meraviglioso intermezzo strumentale che lascia a bocca aperta e che fa veramente entrare in un’altra dimensione, quella che ospita Syd dipendente dall’LSD, quella dei suoi viaggi che, nonostante gli avrebbero compromesso la vita da un paio d’anni più tardi fino alla fine, lo renderanno immortale nonostante la fugacità della sua apparenza al pubblico.
Alla pari di “Astronomy domine”, se non addirittura un livello superiore, è “Interstellar overdrive”: un brano di nove minuti circa, completamente strumentale che gira attorno ad un riff, ripetuto all’inizio e alla fine e accennato più volte al centro, che riproduce l’ennesimo trip di Barrett, un viaggio interstellare di andata e ritorno visto dalla parte dei musicisti che sfoderano un’improvvisazione (nei live molto più lunga) rifinita dalle impeccabili tastiere di Wright, che contribuiranno a rendere alle musiche dei Pink Floyd a venire quelle atmosfere spaziali caratteristiche anche delle opere post-barrettiane. “Astronomy domine” e “Interstellar overdrive” verranno proposte ripetutamente nei concerti ad alta dose di psichedelia che la band eseguirà negli anni a venire: la prima la troviamo anche nel live di “Ummagumma” (1969) e addirittura nel tardissimo ed imponente tour “P.U.L.S.E.” (1994) con i tre (Waters se n’è già andato) decisamente invecchiati.
Ma “The piper at the gates of dawn” non è (fortunatamente) solo le due sopracitate. Da incorniciare, ad esempio, l’altro brano strumentale “Pow R. Toc H.” con un’introduzione jazzata e con un mirabile assolo pianistico di Wright, e caratterizzata dalle urla isteriche e senza senso di Barrett e Waters in un crescendo di psichedelia che si spegne sul finale. Da non scordare, inoltre, “Take up thy stethoscope and walk”, unico brano composto da Waters solista nell’album (tutti di Barrett, meno i due strumentali che sono della band intera): il bassista compone qui le sue prime liriche (primi passi verso le vere e proprie poesie da “The dark side of the moon” in avanti) e la band si lancia in un altro intermezzo strumentale che ancora una volta vede protagonista Wright e le sue tastiere, una volta virtuose, una volta essenziali.
Come avevo fatto notare in precedenza, i brani dell’album si suddividono in due categorie: analizzati quelli immortali dello space rock, i rimanenti sono delle filastrocche psichedeliche. Così in “Lucifer Sam” (canzone senza motivo considerata satanica dal Centro Culturale San Giorgio) un riff aggressivo fa da sfondo alla storia di un inquietante gatto siamese; in “Matilda mother”, saggiamente rifinita dall’immenso Wright, una mamma racconta una storia ad un bambino che vuole saperne sempre di più. “The gnome”, invece è la storia di un popolo di gnomi chiamato Grimble Gromble e delle loro abitudini quotidiane, mentre “Chapter 24” sono dei frammenti del capitolo 24 di uno dei libri preferiti di Barrett, “I Ching”, anche questi accompagnati dalle tastiere spaziali e, all'inizio, dal gong. Così “The scarecrow”, inserita nello stesso 45 giri di “See Emily play”, è la descrizione che un bambino potrebbe fare di uno spaventapasseri, abbellita (sembrerò pedante, ma è così) dalle note di Wright. “Bike”, invece, è un brano un po’ più complesso e misterioso: accanto a frasi decisamente infantili e all’onnipresente contorno tastieristico, sul finale vengono liberati da una stanza (come dice Barrett) i suoni psichedelici dell’album e l’ultimo suono è una voce decisamente inquietante ripetuta più volte. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla veridicità del fatto che le musiche di questo album (e del rock psichedelico in generale) rappresentano viaggi irreali causati da LSD, si senta la quarta traccia, “Flaming”, e ne traduca il testo, e mi dica cosa si fa “da solo nelle nuvole dove tutto è blu”, se non un trip.
“The piper at the gates of dawn” è uscito in un contesto, il 1967, dove le sperimentazioni psichedeliche stavano andando decisamente in voga anche presso gli stessi Beatles e Rolling Stones, famosi per ben altro genere di musica. Negli studi di Abbey Road i Pink Floyd registrarono questo album mentre i Fab Four di Liverpool stavano provando il ben più famoso “Sgt. Pepper’s lonely hearts club band”, e spesso ci sono state voci di plagio da entrambe le parti. A questo proposito mi sembra giusto ricordare che tali illazioni non sarebbero del tutto infondate: la strana voce che chiude “Bike” e l’altrettanto sinistro urlo conclusivo in “A day in the life”, ultimo brano di “Sgt. Pepper’s” non vi sembrano un po’ troppo simili, se non altro come idea? Voci di corridoio a parte, “The piper” è assolutamente unico in un patrimonio così inestimabile come quello dei Pink Floyd ed è una rarissima occasione di vedere all’opera uno dei più grandi geni della musica mondiale di tutte le epoche.
Syd Barrett, come già detto, farà la comparsa nel successivo “A saucerful of secrets”, poi tenterà di risollevarsi dalla pazzia con dei lavori solisti: pubblica, entrambi nel 1970, “The madcap laughs” e “Barrett”, mentre nel 1988 del suo materiale scartato prende il nome di “Opel”. Il suo stato di pazzia non è stato mai chiarito del tutto: infatti molti sostengono che la sua sia schizofrenia ereditaria solamente peggiorata dall’uso di allucinogeni, tale da impedirgli di proseguire la propria avventura nel gruppo da lui fondato. Anche la sua morte è avvolta dal mistero, dato che è stata resa nota soltanto tre giorni più tardi e che non conosce ancora una reale causa: si parla di tumore al pancreas ma anche di complicazioni dovute al diabete.
I suoi compagni lo ricorderanno spesso: in “Shine on you crazy diamond”, capolavoro di “Wish you were here” (album interamente dedicato con nostalgia a Barrett), Waters canta: “ricordi quando eri giovane, splendevi come il sole, ora c’è un qualcosa nei tuoi occhi, come buchi neri nel cielo, splendi ancora pazzo diamante”. Si dice inoltre che Syd sia comparso in studio mentre i Floyd stavano provando la suite di “Wish you were here”: calvo, ingrassato, viene riconosciuto dopo un po’ da Waters che scoppia a piangere; i quattro gli fanno sentire “Shine” e lui dice: “bella, ma mi sembra un po’ datata”. Gilmour invece gli dedica su “The division bell” (1994) il pezzo “Poles apart” dicendo: “non ho mai pensato che tu abbia perso tutta la luce nei tuoi occhi” e dedicandogli un breve intermezzo psichedelico in un album decisamente più easy-listening. Syd Barrett non ha mai lasciato del tutto i Pink Floyd, e la band ha fatto di tutto per recuperarlo, ma il diamante pazzo aveva già preso un’altra strada.
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