Hawkwind
Hall of the Mountain Grill
Se, da buoni e accademici scrittori di musica, dovessimo proprio accostare un'immagine metaforica alla quarta fatica in studio sotto moniker Hawkwind, questo discusso Hall of the Mountain Grill (United Artist, 1974), questa sarebbe senza alcun dubbio un morbido ed etereo atterraggio sul delicato suolo terrestre.
Se da un lato è vero, infatti, che rispetto ai selvaggi capolavori precedenti culminanti nell'oscuro sabba lisergico Space Ritual (United Artists, 1973) la compagine inglese sorprende con un lavoro decisamente meno spaziale e più terrestre nei suoni, è altrettanto innegabile che la creatura capitanata dal tuttora instancabile Dave Brock e (all'epoca) dal folle vocalist/fiatista Nik Turner decide di non abbandonarsi ad un rock spregiudicato e diretto, preferendo invece un'evoluzione (o involuzione?) delicata e raffinata.
La virata non è però casuale né improvvisa come si può credere ma dovuta a ragioni plurime, in primis l'abbandono del leader e icona della band Robert Calvert e dell'effettista Dik Mik (il suo ruolo era quello di creare i celebri ghirigori elettronici che dominano le acide improvvisazioni di In Search of Space, United Artist, 1971 e Doremi Fasol Latido, United Artists, 1972) in favore di Simon House, abilissimo tastierista e violinista proveniente dai misconosciuti High Tide.
Non sono da sottovalutare però ragioni più generali, come la diffusione della corrente progressive rock (che proprio nella metà degli anni '70 dominava in modo assoluto il music business inglese) e a cui gli Hawkwind, specie dopo l'arrivo di House, non sarebbero rimasti affatto indifferenti.
L'atterraggio dello sgangherato ensemble, ancora assimilabile più a un'allegra comune di fricchettoni hippie che ad una seria band britannica, è annunciato fin dalla splendida copertina ad opera di Barney Bubbles: un'astronave atterrata nel bel mezzo del nulla e circondata da vapori e nebbia. Musicalmente questi nuovi Hawkwind propongono in apparenza la canonica formula che li ha resi famosi, cioè atmosfere vaghe e fumose, roboanti riff di chitarra, liriche cosmiche e sguaiate. Qualcosa però è mutato e si avverte profondamente, dal minutaggio dei brani, decisamente più inclini a sposarsi col classico formato-canzone alla produzione minuziosa e certosina; l'attacco di Psychedelic Warlords (Disappear in Smoke) è in sintesi quanto di più lontano si possa immaginare dal violento e sporco incipit di interminabili jam come il capolavoro Brainstorm. Come però erroneamente si potrebbe pensare, il marchio Hawkwind non viene per questo a mancare e anzi la qualità dei brani è ineccepibile.
Benché le redini (come sempre) siano tenute dall'onnipresente Dave Brock con il suo magistrale lavoro di chitarra tra riff ispirati ed effetti sempre più peculiari, il cambio di direzione non investe unicamente la sua fortissima personalità, che anzi si limita perlopiù a una funzione di collante.
Il nuovo arrivato Simon House (coadiuvato da Del Dettmar ai synth) non tarda a far sentire la sua mano regalando un breve e incisivo intermezzo di tastiere e pianoforte (la title track Hall of the Mountain Grill) e soprattutto morbidi arrangiamenti di tastiera lungo l'intero full length: paradossalmente convince di più quando stravolge il sound Hawkwind (come nel commovente crescendo di Wind of Change, dove lo stesso House si fa carico di dominare la sezione finale del brano con uno straziante assolo di violino elettrico) che non quando gioca a fare il Dik Mik, perdendosi in arzigogoli elettronici che nulla hanno della tribale spontaneità di, citando un disco per tutti, In Search of Space.
Notevole è anche il contributo del funambolico frontman Nik Turner (dalla cui penna provenivano già due capolavori come Master of the Universe e Brainstorm) che firma forse l'episodio più notevole del platter, la magniloquente D-Rider: aperta da un ostinato ed ipnotico riff di chitarra innestato su effetti cosmici e un delicato assolo di flauto dello stesso Turner, si alterna lungo i suoi sei minuti di durata tra le stralunate liriche del vocalist e un refrain, dominato da consistenti apporti ritmici dell'ineccepibile Simon King, già da qualche anno dietro le pelli del combo inglese. Ultimo ma non ultimo si fanno sentire anche la voce e la tempra del giovane ma già creativo Ian Lemmy Kilmister (poi famoso nei fondamentali Motörhead, ma questa è un'altra storia) sulla rockeggiante Lost Johnny (sarà anche tra i primi successi della sua futura, fortunata band) e su vari interventi illuminati al basso.
Vero testimone del cambio di sound è però l'eccellente You'd Better Believe It, l'unico pezzo in cui, con un leggero carotaggio, si può toccare con mano il passaggio dagli Hawkwind alieni a quelli terrestri. Ciò che rende questo brano differente dagli altri è proprio la sua confusione studiata: niente sembra lasciato al caso o alla cieca furia né gli strumentisti decidono di violentare i propri strumenti spingendone le potenzialità espressive agli estremi tra stridenti e corrosive cacofonie, com'era invece prassi fino a meno di un anno fa.
In definitiva l'album della consacrazione degli Hawkwind - come avrebbe dichiarato entusiasticamente Lemmy, il quale da sempre nutre un forte affetto per questa opera altro non è che un eccellente prodotto di rimaneggiamento del sound che dopo l'atterraggio appare per la prima volta stabile e concreto, con un gruppo che narra lo spazio anziché viverlo, che lo scruta anziché fluttuarci, che lo definisce anziché perdercisi. Nel corso degli anni il combo (che avrebbe vissuto molte vicissitudini e avventure, tra il licenziamento di Lemmy per un conflitto di droghe al ritorno di un redento Robert Calvert) avrebbe ancora mutato pelle senza però mai più staccarsi dal suolo terrestre.
Lo spazio dopo l'atterraggio di Hall of the Mountain Grill non rimane che nei ricordi di chi lo racconta: sta all'interpretazione di chi ascolta decretare se questo sia un andare avanti o un andare indietro, nella certezza però che gli Hawkwind in questo album riescono a dare un'invidiabile prova di sintesi e di affiatamento, di qualità negli arrangiamenti e di orecchio melodico, mostrando al pubblico un lato di sé più umano, quel lato che era fino a quel momento stato nascosto nelle viscere spaziali, in quel rituale cosmico che aveva inghiottito e posseduto Brock e soci e che rischiava di renderli servi e meri esecutori di ciò che loro stessi avevano tanto ingenuamente creato.
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