A Live - Miami Festival (Milano, 07.06)

Live - Miami Festival (Milano, 07.06)

Splendido il programma del Miami quest’anno. Putroppo causa problemi balistici e metereologici abbiamo potuto usufruire solo della giornata centrale di sabato 7 giugno. È comunque bastato per tirarne fuori questa resoconto. 

Il cielo è oscuro e minaccia ancora pioggia dopo gli acquazzoni monsonici del giorno prima. Tutto ciò ha costretto gli organizzatori a spostare il programma che si doveva svolgere nel palco della Collinetta all’interno del locale Magnolia, in un piccolo buco dall’acustica molto approssimativa e dalla capienza assai limitata. Ma la passione non frena il popolo alternativo che si riversa con la dovuta cautela all’Idroscalo di Milano per assistere ad una giornata che per il sottoscritto rischia di rimanere negli annali.

Si comincia verso le 16.00 sul palco Pertini con i Nerd Follia, di cui si riesce ad ascoltare un paio di pezzi da cui emerge un punk-rock senza particolari pretese.

Subito dopo arrivano i Cosmetic: rock semi-adolescenziale alla Verdena che mostra un certo amore per il noise e il feedback gratuito ma anche (e soprattutto) per intriganti ritornelli melodici. I quattro membri del gruppo sono giovanissimi, probabilmente tutti minorenni, e tra di loro spiccano una striminzita bassista giappa con lo strumento più grosso di lei, e un chitarrista probabile figlio o sosia di Woody Allen.

Il livello resta più che discreto con i Golf Clvb, gruppo sardo che propone con buon piglio un post-punk figlio di un intreccio tra gli Altro più melodici, i Disco Drive e i Bloc Party. La presenza di un tastierista è indice di un certo amore per un disco-punk che ama comunque ricercare scorze noise e che svaria molto anche in un post-core urlato. Naturalmente tutto all’insegna di un indelebile marchio indie all’insegna del revival wave.

Mentre dal palco alternativo non sembra arrivare particolare linfa creativa si continua ad assistere comodamente al programma del palco Pertini che ora offre i Drink to me, altra band all’insegna di un post-punk marchiato di indie che sente molto l’influenza degli Yuppie Flu ma che nonostante una performance meritevole fa emergere più chiaramente di altri il problema di una non perfetta compatibilità con la lingua inglese.

Finalmente ci spostiamo dentro al Magnolia: ci sono i Calorifer is very hot e francamente un gruppo con un nome tanto geniale non lo si poteva perdere. E nonostante ci si fosse approcciati più per curiosità divertita che per vero interesse si rimane sorpresi da un nucleo di canzoni che spaziano tra indietronica e un prezioso alt-pop solare alla Shins.

Sul Pertini intanto salgono gli Ah Wildness, il tipico gruppo hard-rock che non manca mai in un festival: il cantante sembra un fighetto milanese con la sua bella camicietta mentre spiccano un uomo dalle basette improponibili e una donna apparentemente rimasta ferma alla Woodstock del ’68 con un look trasandato da figlia dei fiori alla Janis Joplin. La loro proposta si ferma a un intreccio pacchiano di funk e rock direttamente dagli anni ’70 e il loro aspetto è tamarrissimo.

Arrivati a questo punto si ragiona sul programma e si scorge che dopo di loro arrivano i Dead Elephant. Tediati dagli Ah Wildness per ingannare l’attesa ci si butta su degli ottimi panini alla salamella con maionese e cipolle, accompagnati da un buon bicchiere di vino rosso di sapore rustico.

Un ruttino, una sigaretta, uno sguardo al cielo che continua a essere minaccioso e poi via, a sentire il violentissimo post-core dei Dead Elephant, una delle sorprese musicali di questo 2008 (e non solo d’Italia). La loro proposta spazia molto tra post-core, screamo, metal e citazioni varie dalla Palm Desert Scene (stoner) in un mix che conferma l’enorme potenza sonora del disco ma forse anche il difetto di essere un tantino troppo tirato e monolitico (se può essere considerato questo un difetto).

Ormai si fa la spola tra palco Pertini e Magnolia: gli Annie Hall suonano un gradevole indie-rock misto pop melodico e spensierato a sfondo ‘60s. Si ascoltano un paio di pezzi poi si sentono le ginocchia che iniziano a crollare. Urga una pausa ricostituente.

Si trova una panchina vuota nel dehors e ci si sdraia di gusto ascoltando sottofondo i Sottopressione, gruppo presentato come un pezzo di storia dell’hardcore milanese dei ‘90s. E in effetti si capisce perché in pochi sono al corrente di tale scena, essendo la loro performance alquanto banalotta e molesta. Ma forse è la stanchezza che parla.

Fatto sta che non appena si torna dentro a sentire i Camillas la stanchezza scompare di colpo e si rimane aggrappati al palco per l’intera performance. Senz’altro una delle sorprese migliori della giornata. Difficile definire la loro musica in termini stilistici. Più facile dire che Zappa sarebbe fiero della loro istrionicità parodica in grado di sbeffeggiare autori di culto (Massimo Volume) o commerciali (il mestiere del dj) e generi (dal songwriting al post-punk), il tutto partendo da una grande tecnica musicale e da uno spirito degno del duo Cochi-Renato. Bravissimi Ruben e Zagor!

Poi arriva il problema: Disco Drive o Temponauts? La scelta non si pone nemmeno. Sebbene avessi gradito ascoltare un pizzico della psichedelia beat pop 60s dei secondi, il ricordo folgorante dei Disco Drive al concerto milanese dei Liars risulta troppo forte per farmeli perdere. Ed ecco che inizia la prima di una serie di performance memorabili: il trio piemontese si scambia continuamente gli strumenti partendo dalla formula-base anomala di due batterie e un basso. L’attitudine è sicuramente l’irruenza punk ma il suono è tutt’altra cosa, già avanti…post.

Disco-punk che si sfoga in riffoni funk e celestiali atmosfere noise. Su tutto quanto però trionfa un tribalismo selvaggio e spietato, vera musica nera fino al midollo, in grado di far tornare dritti all’età della pietra e di far scuotere capo e culo con foga eccelsa. Rimane invariato il grosso quesito: perché quello che è uno dei migliori gruppi live italiani non riesce a trasmettere la stessa atmosfera su disco?

Dopo il trionfo delle batterie verrebbe da dire che giunge il trionfo delle chitarre dei Reworms’ Farm, altro gruppo formato da tre autentici animali da palco. Sarebbe però riduttivo esaltare le graffianti chitarre e trascurare la strepitosa prova del batterista, grande picchiatore degno del miglior Bonham. Rock puro e duro quello dei Reworms’ Farm, che rielabora in maniera spettacolare rock’n’roll, noise e pop costruendo sferragliate di tre minuti micidiali e fulminanti.

Dopo tanta abbondanza urge una piccola pausa e si torna alla panchina a sdraiarsi. Intanto l’Idroscalo si è riempito oltre ogni personale previsione, tanto che si fa fatica a muoversi tra la calca. Pochi minuti di riposo per prepararsi al gran finale: Altro e Luci della Centrale Elettrica, che suoneranno non sul palco principale Pertini ma nel piccolo palco del Magnolia. E mentre si ascolta il rockettino innocuo dei Zen Circus (salire sul palco dopo Disco Drive e Redworms’ Farm non dev’essere affatto facile) ci si ricorda che si voleva fare un salto a sentire anche i Damien, promettente e giovanissimo gruppo punk. Si fa a tempo a sentire gli ultimi pezzi che in effetti sono davvero incendiari e devastanti. Punk violentissimo ai limiti dell’hardcore suonato con furia primordiale. Finale antologico che vede la chitarra buttata a terra con gran sfregio. Pubblico in delirio e applausi del sottoscritto. Non sarà la prima volta che accade ma fa sempre effetto da vedere.

Ora però arriva un altro dei momenti più attesi della serata: gli Altro. Per l’occasione mi acchiappo un posto nelle prime file e mi godo uno di quei concerti che odorano maledettamente di leggenda. Gli Altro dal vivo sono un’esperienza folgorante. La loro musica è stata da qualcuno definita Altro-punk. Forse però sarebbe meglio dire post-Altro. Difficile infatti trovare un anello di congiunzione efficace per descrivere il loro incredibile post-punk e la loro maniera di iniziare e finire quelle scheggie roventi di 1-2 minuti che qualcuno definisce riduttivamente canzoni. La memoria resta inchiodata sullo splendido show del trio marchigiano, sulle spaccate mirabolanti (con tanto di altrettanto rumorosi capitomboli) del chitarrista e vocalist Alessandro Baronciani, sulle splendide trame alla batteria di Matteo Caldari e sulla furia di Gianni Pagnini, che si sporge talmente tanto dal minuscolo palco da farmi quasi brillare in faccia le fumanti corde del suo basso. E il pubblico gode. Memorabile.

Sul Pertini tocca agli Hormonauts ma non ci schiodiamo dal Magnolia, così come è incredibile la quantità di gente che la pensa come noi: deve suonare come headliner Luci della Centrale Elettrica. Solo pochi mesi fa aveva aperto con una manciata di brani una serata in cui headliner erano Zu e Teatro degli Orrori. Lo conoscevano in pochi, quasi nessuno. Tra l’indifferenza generale e l’impressione che avesse bevuto troppo era stato accolto tra molti borbottii e pochi applausi.

Ora lo troviamo qui, al Miami, a chiudere una giornata che ha visto molto del meglio della musica alternative italiana. E quando sale sul palco si capisce subito che è un po’ nervoso ed emozionato. Forse per la situazione, inaspettata per uno che fino a un mese fa era ancora nel limbo. Forse per il fatto di aver rotto il manico della sua affezionata chitarra e di aver dovuto cambiare attrezzo all’ultimo momento. Fatto sta che l’inizio dell’esibizione non è spettacolare: soundcheck difficoltoso, qualche accordo sbagliato e la difficoltà di trovare un contatto intimo con il pubblico. Pubblico che però lo appoggia e gli dà fiducia, pazientando anche quando la sfiga si impone su Vasco Brondi rompendogli una corda. Quando torna sul palco è un altro e il finale è finalmente degno della fama che ha ottenuto, nonostante una chitarra visibilmente scordata. Le canzoni dal vivo tornano sotto il formato del glorioso demo da noi esaltato. Qui non c’è Canali ad appiattire le canzoni e il noise-rock si alterna liberamente alla poesia acustica degli splendidi versi del nuovo bardo generazionale.

Alla fine arriva l’epico urlo: “I CCCP non ci sono più!” Si alza qualche pugno chiuso. Molto pochi a dir la verità. C’è anche il mio. Forse sono anche l’unico. È un peccato. Ma d’altronde se i CCCP non ci sono più un motivo c’è.

È finita e rimane il problema di come tornare a casa. La Moratti non ci ha concesso manco un pulmann speciale. Noi poveri sfigati ci dobbiamo arrangiare. Grazie Moratti. Grazie ATM (il servizio dei trasporti di Milano ndr).

Per fortuna un ragazzo ci dà un passaggio fino in centro. Si chiama Luca Freddi. Scopriamo che è il bassista dei Satan is my brother e degli Yellow Capra. I primi li abbiamo anche recensiti parlandone bene. Infatti mi ringrazia. Io ringrazio lui per avermi evitato trenta euro di taxi. E gli prometto sorridendo che mi “procurerò” i suoi dischi al più presto. Con un sorriso un po’ più scoraggiato mi dice che lui non è riuscito a “trovare” niente dei Satan sulla famosa “salsiccia blu”. Diamine.

Finisce così una giornata strepitosa, con una passeggiata notturna all’insegna di riverberi e assoli immaginari in testa. E grazie al cielo non ha piovuto. Una botta di culo ogni tanto non guasta.

C Commenti

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target alle 10:14 del 9 giugno 2008 ha scritto:

Grande peasy! Godibilissimo report. Confermo che il batterista dei redworm's farm picchia da paura. Padovani gran picchiatori. E piace constatare che rimanga nelle performance di Brondi quel tocco autodistruttivo (con redenzione finale) che lo restituisce alla sua autenticità. Ora una domanda sorge spontanea: c'era la tipa rossa che presenta la classifica indie su all-musica? Se sì, è uscita viva?

Alessandro Pascale, autore, alle 10:32 del 9 giugno 2008 ha scritto:

mmmmh sai che non l'ho proprio vista? E se l'ho vista non ci ho fatto proprio caso sinceramente. Sono rimasto più emozionato nel trovarmi a fianco del chitarrista degli Offlaga Disco Pax e nello stringergli la mano balbettando qualcosa del tipo "io vi adoro!" ))

Giorgio alle 2:10 del 10 giugno 2008 ha scritto:

Ciao Alessandro

Posso farti una domanda indiscreta? Con che coraggio affermi che la tua vita è la musica e poi dati Woodstock al 1968?

Grazie in anticipo per la risposta

Giorgio

Alessandro Pascale, autore, alle 10:21 del 10 giugno 2008 ha scritto:

eh piccoli lapsus possono capitare a tutti quando si scrivono tali report alla fine di un weekend devastante cmq in effetti è una svista grave è vero. Mi darò dieci frustate sul pene

Marco_Biasio alle 20:18 del 10 giugno 2008 ha scritto:

Grandissimi Redworms', nell'alto dei cieli... me li vedrò il 21 giugno ma so già che sarà uno sballo furibondo. Hitchiker's Guide!

Slisko alle 15:39 del 23 luglio 2008 ha scritto:

fighetti milanesi

"il cantante sembra un fighetto milanese con la sua bella camicietta"

solo un piccolo appunto di puro costume. i fighetti milanesi ormai non mettono più le camicie, ma le magliette comprate al mercato, gli occhiali spessi da nerd (quelli che si vedevano nei telegiornali in bianco e nero anni '70) e vanno in pellegrinaggio al magnoglia ad ascoltare gruppi dai nomi ironici ...

GiudiceWoodcock alle 17:31 del 29 agosto 2008 ha scritto:

sono d'accordo con slisko.

Alessandro Pascale, autore, alle 23:52 del 29 agosto 2008 ha scritto:

evidentemente gli unici superstiti sono rimasti nella zona dove abito io.