The Antlers
Familiars
È unafosa notte di inizio giugno, quando ascolto uno scorcio di Familiars. È giugno, ma è anche agosto: il caldo bestiale, lassenza di brezza, o le cicale del crepuscolo bolognese, già riportano la mente alle mie colline assolate. Ho in mano Pratolini: Un giorno saremo ancora tutti assieme, seppure coi corpi consumati da contatti estranei, scrive a pagina cinquantasei. Come a dire che siamo e saremo familiari, dunque. E per sempre, nonostante tutto, nellamore.
Lamico Mauro mi parla di Familiars, mentre nelle cuffie scorre Palace, prologo allettante. Mi parla di dilatazione, di ampi spazi, di onirico, di ottoni, di melodie pescate in un etere sognante, non più stretto e claustrofobico (quello di una stanzetta di Brooklyn): il folk intimista lascia il posto a notevoli estensioni, a code dense, ai tremiti della voce appassionata, alla pulizia del suono.
Doppelganger, o doppio viandante, è una seconda traccia in questo senso emblematica: un lento soffuso, ballata jazz-blues che parla di paranoia, perennemente carezzata dalla tromba, sontuosa. Quando il falsetto, arma mirabile, diventa quasi femmineo, Silberman ricorda Patrick Watson, e il finale manda in visibilio con il piano che sembra improvvisare (jazz, appunto) e la chitarra ariosa.
Finora tanta roba. Scricchiolerà, prima o poi e da qualche parte, questo terzo LP targato The Antlers Vengo smentito da Hotel, superba nella struttura (con organo, basso virtuoso, carinissimo assolo di chitarra finale), e da Intruders, solare e frizzante negli accordi stoppati, con Silberman, versatile al canto, quasi disperato a ripetere And whyd I need to?. Non finisce qui. Parte Director, con una melodia semplice, quasi banale. Ma non può essere banale, mi dico. Sto vibrando da venti minuti, ormai. Sulle parole Til you overthrow who youve been, così estese, ho un sussulto addirittura: parte la chitarra raffinata, poi le tastiere immettono in un mondo altro, diverso, migliore. Pare che lemozione stia scemando, come scema il brano. E invece ricado ancora nellincanto: Silberman esprime toccante So you forgot your way? Well Im trying to remind you. Le chitarre si ingigantiscono, quasi non ne posso più. Vorrei spegnere, quanto meno regolare i brividi. Centellinarli.
Ecco che su Director, dunque, si è raggiunto lorgasmo, musicalmente parlando. Ciò che verrà dopo sarà normale deliquio, in una seconda parte più pallida e meno commovente. Ma, sia chiaro, sempre piacevole deliquio è: la tromba di Darby Cicci, anche in Revisited, accompagnata dalle svasature di chitarra, non è un mero riempitivo (si respira il Bon Iver dellalbum omonimo), ma è parte sostanziale della struttura intera dei brani: neanche canzoni in senso stretto, lineari e circolari, ma fluidi lunghi e ininterrotti, che sbiadiscono e si colorano.
Questo deliquio finale potrà sembrare anche monotono, poiché The Antlers non cambiano il registro: ancora ballatone, calore di voce e arrangiamenti, rullante stanco (la stessa Revisited, il finale Refuge), con qualche vezzo di chitarra (le salite e discese cromatiche di Surrender, o la spinta quasi reggae di Parade): ma questa specie di ripetizione, o sarebbe meglio dire di "propria rilettura", rimane sempre seducente, come un corpo al quale starebbe bene ogni abito.
Silberman cerca le rime, le assonanze, la quadratura del verso, dilata e restringe la parola affinché aderisca come seconda pelle alle sue splendide melodie (dove-le-peschi-Peter-le-melodie? Nelletere sognante, certo, diceva Mauro). Nel lirismo profondo e talvolta malinconico, oltre che esteticamente perfetto e naturale, sta laltro pregio indiscutibile di Familiars. Disco pertanto ispiratissimo e, come dire, notturno.
Mi desto che è giugno, e anche agosto. E attendo il buio per un nuovo, meraviglioso deliquio.
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