Umberto Maria Giardini
La Dieta dell'Imperatrice
Il serpente cambia pelle, nonostante poi rimanga sempre lo stesso. Così Moltheni cambia nome. Anzi, sceglie di riprendersi il suo: Umberto “Maria” Giardini. E torna dopo un letargo, o autoesilio, durato quasi tre anni. Pur tralasciando lo pseudonimo – inciso sul braccio in un recente tatuaggio dalla scritta inequivocabile (“ex-Moltheni”) – il respiro e le antiche atmosfere sono evidenti e palpabili in gran parte del disco, nonostante il nuovo album riveli il passaggio da tendenze acustiche a suoni esclusivamente elettrici.
C’è Moltheni, spesso, negli arpeggi e nei suoi consueti giri di accordi; c’è nel modo di interpretare il piano Rhodes; c’è nel canto, nei vocalismi, in quella voce aperta e suggestiva. C’è Moltheni nella sua poetica familiare, che evoca la natura, che mette a nudo se stesso, nelle liriche visionarie ed oniriche, a narrare le proprie emozioni, i sentimenti. Palese è peraltro l’afflato dei Pineda, suo progetto effimero del 2011 (con album omonimo), le cui trame ipnotiche e squisitamente progressive sono lampanti all’interno di due brani all’interno del disco.
Fulminato da Anna Calvi, ispirato dall’arte splendida e innovativa di questa bionda trentenne britannica, Umberto Giardini torna in quel panorama musicale dal quale si sentiva respinto, forse incompreso; un ambiente povero e sprovvisto di uno stile di scrittura che invece gli è proprio, maturo ma in declino, per via della oramai diffusa pochezza artistica. L’ex-Moltheni riappare perché “sopra ogni cosa sente il bisogno fisico di suonare dal vivo”, di riabbracciare il suo pubblico di nicchia che tanto lo ha aspettato, cullandosi in un verso caro ai suoi proseliti (“Ma l’attesa mi piace da morire…”).
Il titolo, “La dieta dell’imperatrice”, lascia spiazzati, confusi, curiosi. Ma dieta è parola greca, che indica stile e modo di vita, denota una tendenza, un’inclinazione. Ed è la dieta della musica, imperatrice meravigliosa e suprema, quasi spodestata, in questi tempi costretta ad abdicare dalla mediocrità che dilaga nel suo mondo. È la “dieta forzata”, spiega Umberto, “che la stessa musica deve fare in questi anni in cui manca qualità, oramai non solo nella musica. È la dieta imposta dal panorama italiano, sempre così scadente, prevedibile”. E il progetto che ha nome Umberto Maria Giardini propina la sua strada, la sua rotta, la sua dieta, come investito di una missione. Lo fa in dieci piccole pillole, distribuite con grazia: a curare, a curarci, perché “l’uomo ignaro muore”.
La Dieta esordisce con un brano strumentale, "L’imperatrice": sono esattamente centoventi secondi di una Telecaster dalle corde inizialmente “stoppate”. Lenta, evocativa. Parte cupa e poi schiarisce, si apre, sboccia come un fiore, preludio di una nuova stagione e dell’album che sarà. Segue "Anni luce": partenza minimale, con la monotonia malinconica di una chitarra, presto abbracciata dai fraseggi di Maracas e dalle percussioni scandite; è un brano d’amore, un po’ mielato, pieno di verbi al condizionale, ad indicare ciò che poteva essere, e non è stato, nell’illusione di addentrarsi in un’oasi di rara e unica bellezza, distante dalle carenze del mondo, “lontano anni luce”. "Il trionfo dei tuoi occhi" è un gioiello, che parte con la medesima pennata e il medesimo tema dell’Imperatrice, ma stavolta si schiude in meravigliose liriche metaforiche (“Mille montagne scalerò / facendo tappa tra i tuoi nei / e nei dubbi miei”), in un cantato ampio e mirabilmente impastato con chitarre, piatti e tamburi; Umberto pianta un vessillo, fissa un anno, una data (“Duemilaundici”), come a frenare il tempo, arginarlo, aggrapparsi alle memorie senza che esse scivolino via troppo presto tra le dita. Il riff magnetico in "Quasi Nirvana", accompagnato da un testo mirabile ed elaborato, propina grandi suggestioni, mentre la voce racconta di un amore altalenante, prima “antibiotico / antiaderente al mio cuore”, poi “incredibile / quasi Nirvana”, e a cui manca qualcosa per raggiungere pace e beatitudine; l’apertura finale, con archi e violini, è tuttavia pomposa, ricca e quasi virtuosa, prima che il brano si spenga adagio, mentre la voce chiede ancora ardore: “bruciami / come la legna in inverno”. "Il desiderio preso per la coda" è il secondo e ultimo brano strumentale della Dieta, nel più classico “stile Pineda” (dove Umberto era alla batteria): sulle trame ammalianti e ripetute della chitarra arabescano mille altri suoni, in un climax genuinamente rock, a segnare la metà del disco.
"Discographia" è un pezzo assolutamente “moltheniano”, in tutta la sua struttura: è difatti un brano datato, nonostante la sua “aurora leggera” si sprigioni solo adesso; rimane, comunque, uno degli episodi migliori dell’intero disco, crescendo nel finale. "Saga" parte con stanchi slide di chitarra, sempre piacevoli, mentre Umberto farfuglia e si perde tra valchirie, fiumi e pianeti, lasciandosi andare a lamenti ed elucubrazioni visionarie e sognanti: il piano di sottofondo sontuosamente ricama i versi. Tipicamente moltheniano è anche l’ottavo brano, "Genesi e mail": lo è nel piano Rhodes, nell’aperto giro di accordi, e nel suo citare la natura; è una lenta ninna-nanna, il cui ritornello si replica a lungo, mentre giocano la voce e i violini. "Il sentimento del tempo" è un altro pezzo di matrice Pineda, accelerato e progressive, che si calma nel mezzo per lasciare spazio alle parole, e riprendere con la dinamicità lasciata. Dopo aver disseminato nell’album una data, compare in esso anche un luogo, Bologna, teatro di vita di Umberto stesso. "L’ultimo venerdì dell’umanità" comincia con un arpeggio che rammenta l’ultimo pezzo dei “Segreti del corallo”, L’attimo celeste: Umberto gira intorno a quello stesso tema, in un clima tetro e apocalittico. Quest’ultima fatica vive per nove minuti, poi perisce piano, saluta. Forse un arrivederci, non un addio. Intanto inonderà gli spazi di questa estate che muore e dell’autunno che nasce, accompagnandone i giorni, alla sera, colmandone a tratti i vuoti. È il ritorno impensato di Umberto Giardini, il serpente raro che evade dal letargo e cambia pelle.
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