V Video

R Recensione

7/10

Candy Claws

Hidden Lands

L’esigenza dei Candy claws è quella di trasferire le emozioni e le immagini della letteratura alla musica. Se il loro esordio In the dream of sea life (2009, Indiecater records) voleva essere un accompagnamento musicale al libro di Rachel Carson The Sea Around Us, questo secondo lavoro, uscito ad appena un anno di distanza dal suo predecessore, è ispirato a The Secret Life of the Forest di Richard M. Ketchum. L’elemento che unisce i due lavori è un dream pop ottenuto con dosi massicce di effetti e campionamenti elettronici e dove la fuga nei terreni affini allo shoegaze e dell’ambient pop sono soventemente percorsi. Cambia ovviamente l’ambiente naturale e cambia di conseguenza anche l’atmosfera: dalla liquidità fluttuante e dolcissima delle profondità marine, si passa all’ignoto delle sterminate foreste di qualche posto remoto, con i suoi alberi austeri e immobili sferzati dal vento. Non sorprenderà allora che Hidden lands sia meno pop del suo predecessore. O meglio, sono le melodie che perdono il loro carattere apollineo, ameno: restano più celate, offuscate da un gioco contorto di riverberi ed  effetti elettronici che poco hanno dell’armonia del flusso marino ma molto di più di un torrente fatto di cascate e che si snoda sinuosamente in mezzo a una foresta che ricopre alte montagne disegnando curve a gomito in successione che scendono a valle a rotta di collo.  

L’inizio (In the deep time) pare effettivamente un flusso senza capo né coda, l’immergersi in un sogno di irrazionalità e di umori cangianti ed imprevedibili. Ma poi la struttura sonora, lentamente, appare, non geometrica, ma comunque studiata. Kay e Ryan erigono muri sintetici col cemento dei riverberi di stampo shoegaze (quelli di Kevin Shields) ma questi non vengono lasciati in totale libertà, l’obiettivo dei Candy claws non è quello di esibirsi nell’ennesimo esercizio di  flusso di coscienza applicato alla musica, concetto oramai obsoleto e divenuto quasi banale, né vuole essere un operazione di arte astratta, bensì è la voglia di inserire le emozioni entro una cornice che ne conservi la sostanza e l’essenza: si vuole impedire che la musica strabordi e si perda in mille direzioni. La ricerca sonora dei Candy Claws è la ricerca di un ordine creativo, è il desiderio di organizzare e porre limitazioni senza ostacolare la libertà creativa che viene dalla contemplazione e riproduzione della natura, dei suoi suoni e dei suoi misteri. Ecco allora che una struttura per certi aspetti mutuata dalla musica classica si inserisce con assoluta naturalezza nelle trame sonora del gruppo di Fort Collins (Colorado) laddove il tempo e la ritmica vengono scanditi senza la minima sbavatura, i crescendo e i diminuendo seguano una logica e una precisione inoppugnabili, adagi e allegri si alternano come se fossimo a da ascoltare una sinfonia sapientemente scomposta in vari movimenti.

La strumentazione poi impressiona per l’amalgamarsi sbalorditivo di suoni sintetici e plastici, riverberi e distorsioni in logica fuzz, voci ancestrali e sezioni di fiati che a volte riportano alla austera Vienna ottocentesca nell’atmosfera di un opera lirica, altre in sperduti ambienti pastorali, bucolici, immersi nella nebbia e nel mistero che anche il titolo del disco vuole evocare (si ascolti Hiding). C’è soprattutto la presenza dei My Bloody Valentine ma c’è anche la delicatezza di Mozart e ci sono i Dead Can Dance e i Mùm e gli idilli di Teocrito in sospensione fra un realismo campestre e la sua idealizzazione in un tentativo di fuga dalla realtà. I ritmi sono meno rilassati rispetto al precedente album ma restano sinuosi, a tratti onirici, raramente percussivi. Quando lo sono, lo sono sempre in maniera discreta: il massimo dell’ossessività è raggiunta dal carillon multicolore di Sunbeam Show, una sorta di marcia fuori da ogni luogo, svuotata da ogni contesto e contingenza.

Sovente l’opera si avvicina a certa folktronica dreamy, stile Tunng, Bat for Lashes o Album Leaf, che si intinge nelle atmosfere di una rinascita primaverile vivaldiana, allegra ma problematica (Warm forest floor, Miracle spring). Il folk, nella sua dimensione rigorosamente alternative e parzialmente arty, è anche presente su composizioni ondulate e più ritmate (On the bridge rimanda ai Dodos e ai Fleet Foxes). La delicata operetta di The breathing fire con i suoi tocchi a metà fra un valzer frenetico e complesso chamber pop, anticipa l’intimismo agreste e isolazionista di Silent time of Earth, dolce e soffusa composizione che lascia però trapelare un qualche slancio epico, anche se resta un epicità del quotidiano, un’enfasi e un esaltazione della semplicità e della solitaria contemplazione della natura incontaminata.

Eppure, l’album non sempre è (o non riesce sempre ad essere), così brioso, fresco come il suo predecessore, non tanto per un appiattimento ritmico (che è anche stavolta evitato con maestria anche nei momenti più lenti e apparentemente monotoni), ma per delle soluzioni melodiche che sembrano meno incisive: la voce à la Frazer di Kay pare un continuo sussurro, tende a cristallizzarsi su certe tonalità e a prendere un po’ troppo alla lettera l’impalpabilità della lezione dream pop eliminando quella (piccola) dose di consistenza e di immediatezza melodica che la loro interessante proposta artistica forse richiederebbe.

In conclusione bisogna comunque sottolineare che bissare in qualità l’esordio dell’anno scorso, avendo a disposizione un lasso di tempo così breve, non era forse neppure concepibile. Il fatto che vi ci siano avvicinati è un segnale molto forte riguardo alla salute, freschezza, creatività di un gruppo che  pare avere il potenziale per fare cose davvero strabilianti.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

salvatore (ha votato 7 questo disco) alle 19:49 del 2 settembre 2011 ha scritto:

Che bello questo disco! Mi era proprio sfuggito... Atmosfere fiabesche per un album dream non troppo immediato, ma che una volta assimilato si rivela in tutta la sua evocatività. Brano preferito: The breathing fire che inizia misterioso ed etereo per poi arrampicarsi su una strofa che indugia e stenta e infine aprirsi in un ritornello (sempre che si possa chiamare così) che più familiare e pop non si potrebbe: ()Capolavoro in miniatura!

Molto belle pure sunbeam show, sun arrow e miracle spring...

Insomma, per chi come me l'aveva trascurato, da recuperare.

Bella proposta e bella recensione, Alessandro. Felice di esservi - anche se in ritardo - passato.

salvatore (ha votato 7 questo disco) alle 19:50 del 2 settembre 2011 ha scritto:

Uh, voto 7,5

otherdaysothereyes, autore, alle 23:12 del 11 settembre 2011 ha scritto:

Fa piacere che ti sia piaciuto, Salvatore. In effetti anche the breathing fire è la mia preferita. Se vuoi un consiglio, ti consiglio di ripescare anche il loro album precedente, che secondo me è persino superiore!