Beach House
Beach House
Lultima novità dellindie viene da Baltimora e prende il nome di Beach House, duo formato da Alex Scally (chitarra e tastiere) e Victoria Legrand (voce e organo) che esordiscono con un disco che rischia di diventare una delle colonne sonore del prossimo autunno. Già perché siamo di fronte a unopera che complessivamente ci appare come una serie di bozzetti, di ritratti di paesaggi senza luogo e senza tempo, ma possibilmente sprofondati in una leggera nebbia ovattata in grado di soffocare ogni tumulto, ogni dolore e ogni passione. Musica in grado di evocare ricordi lontani, quella dei Beach House, e musica fredda, quasi spettrale, che cammina su un soffice tappeto di suoni delicati (ai limiti dello shoegaze), con una raffinata andatura slo-core alla Low e un uso leggero ed elegante dellelettronica (quasi indispensabile per ovviare alla mancanza di un batterista in formazione).
Quello che commuove del disco è la sensazione continua di decadenza e di spenta desolazione che riesce a fissarsi nellaria senza scadere in mero parossismo melodrammatico. Il duo mostra di aver assimilato appieno la lezione dei Galaxie 500, punto di riferimento per una possibile associazione spirituale.
Il parallelo più immediato che viene alla mente è però senzaltro quello con la semi-dea tedesca Nico. Victoria Legrand ha una voce meno potente ma ugualmente evocativa e il timbro etereo e carico di gelido pathos corrisponde alla perfezione. Ovviamente i Beach House restano più ancorati a un dream-pop appena appena low-fi del tutto diverso rispetto allatmosfera gotica echeggiante di album come The end e Desertshore.
Sono quella freddezza e quel canto atemporale a far assomigliare tanto la Legrand a Nico, anche se un paragone più immediato e vicino nel tempo è possibile farlo con Mimi Parker (Low).
Beach House non è però un album perfetto. La sua durata (36 minuti) va misurata col fatto che le nove canzoni che la compongono presentano tutte una struttura sostanzialmente identica, e la qualità sembra sbilanciata verso la prima parte (Saltwater, Tokio Witch, Apple Orchard, Master of None sono un gioiello dietro laltro) mostrandosi a tratti eccessivamente ripetitiva nella seconda.
Forse la cosa migliore per godersi questo lp è chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dal flusso di ricordi remoti che solleverà in voi la poesia celestiale che prende il nome di Victoria Legrand.
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