The Black Keys
Brothers
Osservando il volto barbuto e pallido di Dan Auerbach viene subito da pensare ad uno dei tanti invasati fuoriusciti da una qualsivoglia band metal scandinava dispersa nella tundra gelida.
Eppure, a scapito delle apparenze, il suo cuore è sempre arso di un fuoco blues incandescente scintillante di Funk e Soul. In un solo aggettivo, Dan è un personaggio “roots” nell’accezione più stretta e “statunitense” del termine. Vale a dire legato alle radici di un popolo, di una cultura e di tutto il mondo Rock. Sotto il suo viso pallido si nasconde un cuore nero pece denso di catrame, vischioso e grezzo come i primi album a nome Black Keys, poi discioltosi sotto il raggi bollenti del Soul/Funk di Attack&Release, battezzato nelle acque torbide della black music e dell’hip hop con il progetto Blakroc (un “white man” nell’impero dei “nigger”) e penetrato sottopelle, ostruendone i pori in Brothers.
Accompagnato dal fidato compagno Patrick Carney che continua imperterrito a sciorinare stomp secchi e precisi da metronomo umano, intrecciandosi perfettamente con le scorribande blues della sei corde di Dan, Brothers è il settimo parto discografico del duo di Akron, ed a conti fatti il più completo.
Risultato di una crescita musicale all’interno della black music (dal Blues all’Hip Hop), Brothers è il perfetto compendio di tutte le sfaccettature che i Black Keys hanno esplorato e sperimentato in quasi dieci anni di carriera, mantenendo il Blues come elemento base, e aggiungendo mano a mano nuovi ingredienti con la pazienza certosina di un topo da laboratorio, senza mai perdere di vista l’obiettivo primario: Sradicare le fondamenta della tradizione americana per nutrirsi delle sue radici irte e corpose.
Vero e proprio fulcro compositivo di questa sublimazione black/garage è il singolo apripista Tighten Up, lamento blues disperatamente sensuale (“I wanted love/I needed love”) scandito dalle ritmiche sculettanti del Funk che rallentano affogando inesorabilmente nel blues paludoso (unica traccia del lotto in cui c’è lo zampino di Dangermouse, come a dire “Firmo la presenza, faccio il mio sporco lavoretto e me ne vado”).
Non sono da meno il blues sensuale di Next Girl, lo stomp trascinante di Howlin’ For You o la fanghiglia blues di She’s Long Gone che scorre lenta ed impetuosa lasciando spazio all’hard blues notturno Black Mud, ed alla fioca luce notturna screziata dall’hammond di The Only One. Passando lungo le sudice strade dismesse del Blues, il duo si incammina nei dolci sentieri della Motown in Never Give You Up e nei solchi curvilinei di Ten Cent Pistol vibrante di classe swing illuminata dalla luna. Stesse coordinate fanno vibrare le corde di clavicembalo della melodrammatica Too Afraid To Love You e il soul à la Isaac Hayes di The Go Getter impreziosita da guizzi di chitarra fuzz in levare.
A dare il colpo di grazia sono due gemme folk rock di rara bellezza come Unknown Brother e These Days di chiara ispirazione Youngiana, la prima immersa in una atmosfera blues elettrica e ballata folk d’altri tempi, e la seconda splendente di folk agreste da tramonto nelle praterie solitarie, immersa nel caldo abbraccio delle pareti lignee di una casa antica e dal sentore di erba fresca che accarezza l’anima in un soffio di pace.
Un altro capitolo della saga Black Keys, un altro grandissimo album.
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