A Intervista a Jacopo Incani, alias IOSONOUNCANE, per l'album Die

Intervista a Jacopo Incani, alias IOSONOUNCANE, per l'album Die

E subito riprende

il viaggio

come

dopo il naufragio

un superstite

lupo di mare.

 

(G. Ungaretti)

 

 

Non ascolto molta musica italiana contemporanea. Semplicemente, non mi emoziona. Se dovessi fornire dei vaghi numeri, scorre nelle mie cuffie per il 5% degli ascolti totali, e un disco nostrano non è mai nelle prime posizioni della mia classifica personale di fine anno. Sono, musicalmente, un esiliato nella propria patria, che sogna di altre latitudini. Niente pregiudizi o inveterato snobismo: ascolto volentieri ciò che pensano le mie orecchie, ma specialmente cosa pensa la mia pelle. E per gli album italiani, negli ultimi tempi, pelle e orecchie sono lusinghiere di rado.

Eppure con il mio omonimo Incani Jacopo, che gioca col cognome e si appella IOSONOUNCANE, in maiuscolo, è accaduto qualcosa di diverso. L’ho pensato da subito, sin da quando stavo per assopirmi e ho fatto uno sforzo, reinserendo Die alto nelle cuffie, rituffandomi insomma, meraviglioso liquido viaggio, così da sognare mari, gabbiani, scogli, sole, sabbia e sale. Sin da quando, facendo la barba, allo specchio canticchiavo il coretto di “Stormi” (a-a-ah, a-a-a-ah). Per un progetto italiano non mi entusiasmavo in questo modo dall’inverno del 2009, quando Edda scrisse Semper Biot e mi entrò nelle vene (non so se vi è mai evaso, da allora).

Il 30 marzo è uscito Die, disco notevolissimo e singolare. Allucinato, tellurico, moderno eppure antico (sarà per quella copertina retrò? O per i flashback di quando ero bambino che, a tratti, mi subissano: la carta giallognola, i balocchi di legno e plastica, l'odore della casa di allora, l’odore del mare? Cos’ha di così potente questa musica? Cos’ha di così indecifrabile?). Assai meticoloso, sempre attento nella collocazione di ogni singola nota e di ogni sillaba del cantato, Incani non si avvita quasi mai nell’utilizzo di innumerevoli dettagli sonori, senza quindi degenerare in una composizione ridondante. Soprattutto, Die è carico di tensione per tutti e trentotto i minuti, scuotimento altissimo senza cali per sei brani appena: anche lunghi, ma densissimi, quasi schizoidi. Impossibile qualificare musicalmente l’album: è prog, è elettronica, è free-jazz, è acid-folk, è psichedelia, è anche cantautorato (eppure, per dire, in “Mandria” ci sono i migliori Moderat, con un finale sfolgorante). Jacopo Incani abbina di tutto e mescola, chimico sapiente, per una pozione che è unicamente nuova, fresca e lisergica. Una pozione che è unicamente se stessa e che rivela, più dell’album precedente, le capacità prettamente musicali di IOSONOUNCANE.

Come in un racconto breve fuoriuscito dalla penna di Calvino, è la storia di un uomo solo, chissà naufrago in mezzo al mare, che teme di morire, mentre dall’altra parte, sulla terraferma, sulla riva, c’è una donna che forse è la sua donna: capelli al vento, piedi bagnati dall’acqua, sguardo pallido e lacrime, sciabordio delle onde, orizzonte lontano perso nella foschia. Un habitat enorme, sconfinato, apocalittico, e due persone sole, due puntini distanti, forse vicini nell’amore. Due fragili granelli che la brezza potrebbe spazzare e disintegrare da un momento all’altro: è il destino dell’uomo ed è la grandezza di questo disco.

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 Intervista

Etichettarti, dal punto di vista dei generi e delle inclinazioni prettamente musicali, non è tra i miei obiettivi e avrei enormi difficoltà a farlo, perché Die sfugge, a mio avviso, a qualsiasi classificazione, frutto di una mente originalissima. Ma fin dalle primissime note ho collegato il tuo lavoro ad Anima Latina di Battisti, un disco incredibile e avanguardistico, soprattutto per quei tempi (era il 1974). Stesso respiro prog, con alternanza di tempi all’interno del medesimo brano; la voce bassa nel missaggio, quasi incastrata tra le trame della musica, al fine di costringere l’ascoltatore a un attenzione particolare per comprendere le parole; un impiego simile delle chitarre (in “Stormi”, “Paesaggio”); l’utilizzo affine dell’elettronica, con i mezzi di quarant’anni dopo, o delle percussioni; analogie anche in qualche linea e scelta vocale, o nei cori (anche se nel cantato sento anche il Dalla più sperimentale, soprattutto in “Carne”). Dunque ti chiedo: conosci Anima Latina? E se sì, concordi con le mie suggestioni?

Lo conosco bene e lo ascolto da almeno quindici anni. Ora va molto di moda, pare tutti si siano accorti all'improvviso che in Italia c'è stato anche un disco di questo tipo. In realtà ti dico sinceramente che non lo ritengo il miglior disco del Battisti di quel periodo, o quanto meno non è il mio preferito. In generale però non posso che concordare con le tue suggestioni: Dalla, il progressive (italiano e non) e sicuramente il Battisti di quel periodo sono tra le tante cose che hanno inciso sul mio lavoro.

Spiegami la genesi di questo titolo. C’è l’inglese “morire”, e l’idea di morte eventuale permea i testi. C’è il sardo/latino “giorno”, con un’idea di vitalità che si contrappone all’altra accezione appena detta (in “Carne” metti assieme questa natura ambivalente con l’espressione “il giorno muore”). La freschezza e il fulgore di alcune parti sonore fanno infatti pensare alla luce e alla vita. Personalmente scorgo nel disco più morte che vita, ma è una sensazione epidermica, legata alla musica, forse, più che alle liriche. Secondo te c’è più morte, più vita, o i due aspetti si compendiano, come due facce della stessa medaglia?

Si compenetrano, vivono nello stesso corpo e dello stesso ciclo. Descrivo la nascita con elementi di morte e la morte utilizzando elementi vivi.

Dici che sei cresciuto avendo ascoltato psichedelia, in famiglia anche, e questa tendenza ritorna sovente in Die. Quali sono - se ci sono - i riferimenti musicali che si annidano nel tuo disco?

Credo siano tantissimi, ma ne sto prendendo atto solo a posteriori. Non mi sono mai posto il problema durante la scrittura, l'arrangiamento o il lavoro in studio. Mi sembra ci siano tante delle cose che amo e ascolto, dalla psichedelia alla techno, passando per il prog, il minimalismo, l'hip hop, certo freejazz forse, la musica tradizionale sarda, certi compositori contemporanei o classici. E la canzone d'autore, certo, che però per quanto mi riguarda abbraccia nella stessa morsa Guccini e Wyatt.

Smentisci – ho letto – che il precedente La Macarena su Roma (2010) sia un disco “politico”, o comunque smorzi questo tipo di lettura, poiché non era quello il tuo obiettivo: prendevi spunto da un contesto, da una situazione, e poi procedevi per astrazione. Hai anche affermato che Die può essere inteso, a suo modo, come un lavoro “politico”, anzi lo è più dell’album passato, perché pone attenzione su una vicenda esistenziale dell’uomo, che si rapporta con il vivente che lo attornia, e stavolta lo fa in un clima – come dire? – primordiale, legato al suo rapporto (qui difficoltoso) con la natura, nonostante non ci sia nessuna polis, anzi solo mare aperto e terre remote. In effetti si passa da testi verbosi, quasi logorroici, “sociali” se vogliamo (ne La macarena su Roma), a contenuti più elegiaci, poetici, individualistici. Ma è davvero un passaggio da una cronaca più impegnata a una più disinteressata? Spiegami meglio quest’idea di politica senza polis.

Non esista opera d'arte che possa considerarsi politica in sé. Può esserlo solo a posteriori e nel momento in cui una data comunità la riconosce come tale. Fare un disco d'attualità non significa fare un'opera politica, rifarsi alla cronaca del presente non significa fare un'opera politica, riempirsi la bocca con lessico e slogan dei giornali del proprio Paese (o regione, città, quartiere) non significa fare un'opera politica. Questo è un imbarazzante fraintendimento consumatosi negli ultimi decenni nel nostro paese. DIE rifiuta tutto questo, e rifiutando il lessico e l'orizzonte di un presente schiavo di se stesso, si afferma come una rivendicazione prepotente di libertà, di vitalità e di futuro. Per tutte queste ragioni DIE è un atto culturale e quindi, in ultima analisi, politico.

C’è il passaggio da uno scenario più urbano, circoscritto, quello de La macarena su Roma, a spazi dilatati, smisurati: il mare, il cielo, la natura tutta. Se volessimo utilizzare un preciso vocabolo, impegnativo e abusato, potremmo parlare di concept. Come spieghi questa metamorfosi del tuo linguaggio? Quali sono state le tue esigenze e le tue ispirazioni?

Non so sinceramente rispondere, perché linguaggio, esigenze e aspirazioni si impongono in una dimensione quasi inconscia. Credo che il filo conduttore fra i due dischi e che lega tutto il mio lavoro sia il tema della morte, in ogni sua declinazione.

“Perfezionista”, ti sei definito. Il disco è talmente meticoloso, aritmetico, che anche per un ascoltatore disattento questa mania di rigore e di disciplina è evidente. Hai persino dichiarato che, a un certo punto della lunga e faticosa gestazione, decidi di riscrivere daccapo i pezzi, annullando il lavoro fatto, per reinterpretarlo: ti ha salvato Bruno Germano, il tuo produttore, che ha deciso di chiudere l’intero lavoro così com’era. Mi affascina l’idea di un’opera che poteva essere in un modo, e invece è in un altro. Lo stesso Battisti, nel disco suddetto (Anima Latina), riprende due canzoni e le accenna per un paio di minuti con arrangiamenti diversi: come a voler dire che l’arte è tanto legata al momento, alla contingenza, che un disco poteva essere in un modo e invece è in un altro. Anche tu pensi che l’arte sia perfettibile e non perfetta, perché in continuo mutamento, succube dell’istante?

Certo. Tutto ciò che viene fuori dalla mani di un uomo è perfettibile.

Il disco è molto articolato, ricco. Mi incuriosisce molto il modo in cui riuscirai a dispiegare dal vivo il tuo lavoro. Come sarà live, appunto? Come ti stai organizzando in questo senso? 

Sarò io e sarò dietro a un po' di macchine, loopmachine, chitarra, computer, microfoni.

Definisci Die con tre parole, tre aggettivi.

Cupo, accecante, libero.

Sei sardo d’origine, e la Sardegna pulsa nel disco, quantomeno i suoi ambienti (malgrado tu dica che non era tra i tuoi scopi ricondurre l’ascoltatore a luoghi e riferimenti precisi). Però sei trapiantato a Bologna, da diverso tempo. Io ci vivo da due anni, la considero una città dolceamara: a tratti straordinaria, poetica, ma anche logora, inzaccherata, sulla scia di ciò che narrano coloro che vivono lì da qualche tempo. Insomma: l’immagine di una donna che è stata bella, ma ora ha sessant’anni, ed è invecchiata, sciupata, si tiene male, ha qualche guizzo, magari una luce negli occhi, ma è in decadimento, ha la pelle grinzosa. Tu cosa pensi di Bologna e come descriveresti la tua vita nella città emiliana?

Bologna è una città meravigliosa, soprattutto se la si vive lontano dalle dinamiche universitarie. E meravigliosi sono gli emiliano romagnoli. A Bologna mi sento a casa, la casa numero due, certo, ma comunque una mia casa.

 

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