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R Recensione

6,5/10

Felix Lalù

Coltellate D'Affetto

Come uno zampognaro che, durante le feste natalizie, scende dagli Appennini per portare il suono del suo strumento ai borghesi cittadini vacanzieri, così Felix Lalù è ridisceso dalle vette e valli trentine per portare alla comunità musicale underground della Penisola il suo sproloquio liber(tari)o. In risposta alle sconfortanti notizie dei TG e alle banalizzazioni delle rassegne elettorali, “Coltellate D’Affetto” si offre gioviale e spensierato. In realtà l’artista ha utilizzato l’arma del sarcasmo – suo tratto distintivo – per farci sorridere dello scadimento culturale, sociale e politico di questa povera patria, scadimento di cui c’è poco da ridere. Dopo un EP e due LP, Felix Lalù ha dunque deciso di lasciare una volta ancora i meleti della Val di Non per suonare dodici pezzi di pop deviato, rauco cantautorato, indie-rock onomatopeico, schiaffi in faccia, schitarrate e timida elettronica.

Passiamo alla tracklist. È chiaro che ne “I gruppi americani” il nostro scimmiotta quegli ignoranti sciovinisti frustrati della Lega Nord. E per farlo utilizza il nome degli statunitensi, extracomunitari anch’essi, così da smontare il mito dell’immigrato – meglio se islamico –, ormai divenuto capro espiatorio d’ogni pregiudizio, oggetto di odio strisciante, responsabile del rischio sicurezza in tutto il continente europeo. Con “DinamitaFelix Lalù diventa mordace, tanto da tirare in ballo, in una sorta di dizionario delle torture, il medico, la moglie del sindaco, Miss Italia, il capufficio, la tua ragazza... e in lontananza pare di vedere la coprofagia pasoliniana di Salò. L’ironia torna in “Tutta Shanghai” – lo stile è quello degli Afterhours – in cui Felix canta «nel Nordest / c’è più rabbia, / più nebbia, / più bamba / che in tutta Shanghai». Niente da aggiungere.

Il disco è così, un susseguirsi di bad habits e luoghi comuni, coi quali il cantautore alpino gioca a dama, divertendosi a eludere le regole. Questa attitudine è evidente in “Tutti quanti vogliono sembrare meglio”, definito da Felix il singolone, e in “Cosa darei”. In Lalù è dunque figurata tutta la generazione dei nuovi cantautori scapigliati, barboni e con le camicie sempre stropicciate. Penso ad esempio a Lo Stato Sociale quando, ne “La coscienza sociale ai tempi di internet”, il nostro ci illumina circa il suo metodo, ovvero come da un luogo comune (purtroppo vero), e attraverso un registro tragicomico, riesce a fare denuncia: «Il bambino di Taiwan / sta seduto tutto il giorno, / sta seduto tutti i giorni / aspettando l’uragan. / No, non siede sul sofà / e non guarda la televisione. / Il bambino di Taiwan sta a cuccia e cuce il mio pallone». Ci siamo capiti?

Tuttavia, permettiamogli pure qualche romanticheria. Con “È il mio amore mio e si chiama Francesca” – non ci sono paralleli apparenti con la Francesca di Lucio Battisti – viene a galla il lato sentimentale di questo raccoglitore di mele. Eppure, se questo è il massimo che ottiene dalle donne («È milanese, non trattiene le sorprese / e ha serie difficoltà con la differenziata. / Non differenzia i Rancid dai Pantera / ed è cintura nera di valigie a tarda sera»), Felix Lalù è spacciato. O forse siamo spacciati tutti se il genere femminile ascolta con nonchalance il punk dei Rancid e l’heavy metal dei Pantera. È ancor più tapino quando in “Disco” canta: «Quando le ho chiesto la mano / ero fatto come un caimano. / Quando le ho dato l’anello / non ci stavo con il cervello». Ma in fondo cuor debole mai vinse bella donna.

In che modo formulare un giudizio su “Coltellate D’Affetto”? Possiamo dire che questo disco attinge la propria carica provocatoria da gente come Alberto Camerini e/o Donatella Rettore, il linguaggio postmoderno e un certo disincanto verso lo squallore da Vasco Brondi, il genere musicale rock sintetico indie pop da Soerba e/o Bluvertigo. Nonostante ciò, il prodotto finale è una roba originale: è il frutto del lavoro d’un artigiano delle parole e delle note, uno di quelli che durante le lezioni scolastiche è stato certamente tacciato di rubare braccia all’agricoltura. Anzi, alla melicoltura.

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