Calcutta
Mainstream
È sulla bocca di tanti, di troppi.
Mainstream, del resto, il titolo: smisurato, e borioso con malizia. Mia sorella ha scoperto uno nuovo, oggi: si chiama Calcutta, come la città indiana, mi dicono. Hai sentito sto Calcutta?, mi interrogano. La domanda diventa scottante, ossessiva. Noiosa, anche. Così prendo in mano questo disco tanto circondato da clamore, tanto cosparso di incenso, dalla copertina (volutamente) provocatoria, scaltra. Ascolto.
Ed Edoardo Calcutta da Latina si palesa, fin da subito, come il tipo un po sfigato, che alle feste sta in disparte, silenzioso, ha una felpa, beve pigramente, osserva, ma sfigato non è, né confuso, una ragazza gli si avvicina e fa il timido, almeno inizialmente, limpacciato, ma ha gli occhi dolci, la barba folta gli sta bene, dice cose semplici eppure vere, dirette, naturali, appare come stralunato, particolare; quindi finisce che, stasera, conquisti pure. Fa lo stesso effetto con chi ascolta: si è titubanti, ai primi approcci, scettici, poi qualcosa piace, qualcosa risenti, qualcosa non è poi così squallido come sembra. Ma piano con gli entusiasmi.
Cosa mi manchi a fare regge, sulle sue spalle, lintero album: perfetto mosaico pop, molto (tardo) battistiano in ogni sua componente, nella ritmica, nelle atmosfere, finanche nel testo (e non mimporta se non mi ami più / e non mimporta se non mi vuoi bene / dovrò soltanto reimparare a camminare). Servirebbe una dozzina di canzoni di questo calibro, così spontaneamente fresche, per gridare al miracolo: ma da Calcutta la città, voglio dire veniva una santa, e tanto basta. Così Mainstream si compone di otto, poveri brani, se si escludono i due brevi intermezzi; o anche meno, considerando linatteso chiasso elettronico di Dal verme. Sono venticinque minuti, in tutto, che hanno davvero poche carinerie; di luoghi, invece, ce ne sono tanti, fin dai titoli, come a immortalare i momenti in spazi definiti. Come a immortalare questa generazione, la sua generazione, traballante e insicura, che egli tenta di cantare (Cè papa Francesco e il Frosinone in serie A).
Così di buono, molto buono, cè il finale mugugnante di Dal verde, tra percussioni assai minimali (quasi uno schiocco di dita) e le tastiere solite, presenti un po ovunque, talvolta fondamentali (Limonata). Ma resta una delusione di fondo, resta la voce sbarbina, resta musica che lusinga un ascoltatore senza pretese, pop ruffiano mai indigesto, che si mastica morbido, dalle liriche vagamente vasco-brondiane: il clamore scema, sfuma l'incenso.
I riferimenti sono sempre quelli, oramai: Brunori SAS, perché è ugualmente scanzonato, ugualmente triste in alcuni frangenti, e perché lo ricorda nel timbro un po rauco quando alza il tono; si avverte Dente; Cremonini anche. Calcutta ha qualcosa di suo nellessere naif, e nel suo essere sottilmente sarcastico. Però i suoi versi cadono nello sciatto e nel banale più di qualche volta. Ma banale è questa generazione che egli canta, banale è ciò che la TV passa, ciò che la radio passa, ciò che dici a cena, ciò che leggi, ciò che pensi, quotidianamente. Ciò che a quell'età fai, ciò che mangi. Banale è anche il sesso. Ciò che sogni, è banale. Ciò che immagini.
Così banale è considerare un nuovo fenomeno italiano Edoardo Calcutta da Latina, che si allinea agli altri pianeti della galassia nostrana, senza spiccare per lucentezza. Da noi, i fenomeni sono altri, e si contano sulle dita di una mano dalle dita mozzate. Non è giusto citarli in questa sede, ma essi osservano Calcutta come se lui fosse la Terra, e come se loro fossero tanti Giove.
Per chi sa poco di astronomia, è facile documentarsi con immagini in scala, e così comprenderne il divario.
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