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R Recensione

6,5/10

Rez Abbasi & Junction

Behind The Vibration

Un inserto di cinque pagine su Downbeat dedicato al recente “Intents And Purposes”, lavoro di rilettura acustica di classici jazz rock anni 70, dai Weather Report ai Return To Forever, Pat Martino e John McLaughlin, in compagnia di Bill Ware, Stefan Crump e Eric McPherson era motivo più che sufficiente per accendere la curiosità nei confronti di “Behind The Vibration”, esordio per l’etichetta Cuneiform del chitarrista e compositore pakistano, ma cresciuto negli Stati Uniti, Rez Abbasi. Conquistato dalla sei corde dai campioni hard rock dell’adolescenza, Led Zeppelin e Van Halen in testa, Abbasi vanta diverse folgorazioni che lo hanno avvicinato progressivamente ad altri mondi sonori, fino a comporre il proprio variegato stile attuale: prima un concerto jazz di Joe Pass ed Ella Fitzgerald, quindi la conoscenza del chitarrista inglese fusion Allan Holdsworth, ed infine il maestro delle tablas Zakir Hussain, colui che accese l’interesse di Abbasi per la tradizione del mondo musicale indiano, fino a condurlo a collaborare, nelle prime prove discografiche, con alcuni musicisti provenienti da quel continente, oggi assurti allo status di star mondiali del jazz, come Vijay Iyer e Rudresh Mahanthappa.

Se la prova precedente era basata sulla sfida di ricondurre all’essenza alcuni classici del jazz rock elettrico dei Seventies, nel nuovo lavoro Abbasi volta completamente pagina, allestendo un quartetto bassless dall’emblematica ragione sociale di Junction, completato da Mark Shim al sassofono tenore e midi wind-controller, Ben Stivers alle tastiere e Kenny Grohowski alla batteria, per tuffarsi con energetica eleganza nel ribollente calderone della fusion elettrica.

Tutto quello che faccio in musica è determinato dal meccanismo “chiamate e risposta” – spiega il chitarrista – “il quartetto acustico dedicato alle cover jazz rock mi ha spinto infatti, come reazione, a scrivere un progetto basato su composizioni originali. Il nuovo album è in linea di continuità con tutto quello che ho fatto finora, ed in qualche modo si riconnette direttamente al mio primo amore, l’energia che sprigiona dal rock”.

Annotata la particolarità della sostituzione del basso con l’elettronica, il disco contiene tutto quello che può esaltare i patiti del genere e, contemporaneamente, attivare la prevenzione di chi ama in musica voli più avventurosi e maggiori distanze dai patterns che animano la fusion più muscolare. E’ musica basata su temi molto strutturati, declamati dalla chitarra o dal sax, con ampi spazi solisti per Abbasi, che richiama le voci meno bluesy di John Scofield, il sax ed il Fender Rhodes, un uso strutturale ma non enfatico dell’elettronica, ed il ribollente contributo della ritmica di Grohowsky, che anima tempi quasi sempre sostenuti.

Lungo queste coordinate, che i Junction percorrono con grande perizia tecnica ed una dose di eleganza, non comune in questo ambito, si muovono l’iniziale “Holy Butter”, ispirata ad una collaborazione con un ensemble di danzatori classici del sud India, le tracce più articolate e pervase di atmosfere noir come “Groundswell” e “Uncommon Sense”, e quelle più spiccatamente vicine all’idioma fusion come “Inner Context”, con lunghi soli di elettrica e di hammond, o “Self-Brewing” .

Unico momento di pausa dalle onde elettriche che attraversano l’album è il duetto organo/chitarra che sigilla “And I You”, un’oasi che consente di tirare il fiato per qualche minuto prima della seconda metà dell’album, ancora molto satura di note e ritmo.

Inutile dire che i patiti del genere approveranno senza riserve. Per tutti gli altri, prescritto approccio moderato onde evitare fenomeni di rapida saturazione.

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