Jaco Pastorius
Jaco Pastorius
Il Mozart del basso elettrico fu lanciato nel firmamento musicale dal suo primo produttore Bobby Colomby (già batterista nei Blood, Sweat & Tears), il quale ne venne in contatto del tutto casualmente: una sera in un bar di New York Colomby stava cercando di rimorchiare una bionda, quando questa saltò su a dire d’essere sposata ad un certo Jaco Pastorius, “il miglior bassista del mondo”. Più per desiderio di farla contenta e di rivederla che per altro, Colomby acconsentì a fare per il giorno dopo un’audizione a questo sconosciuto musicista.
Jaco gli si presentò scalzo, in braghe e canottiera, con un pallone da basket sotto il braccio ed il basso (quello: Fender Jazz, coi tasti rimossi e rivestito di spessa vernice protettiva per imbarcazioni) appeso alle spalle con una cordicella. Il produttore trattenne a stento un sorriso di scherno mentre gli mostrava l’amplificatore a cui collegarsi, esortandolo a fargli vedere quanto fosse bravo…
Un minuto dopo era con gli occhi fuori dalle orbite e i peli ritti sulla nuca, lo sconosciuto e trasandato giovanotto gli stava squassando cuore, cervello e convinzioni musicali con la più terrificante sequela di note, suoni e grooves mai sentita prima, e mai ipotizzabile su di un basso elettrico che si potesse immaginare. Colomby si fece subito in quattro per convincere i dirigenti della Epic ad ingaggiare Jaco e investire sulla sua musica, i più riottosi di loro vennero convinti semplicemente portando il bassista a suonare sotto il loro naso.
Le reazioni potevano andare dall’”Oh mio dio!” al ”Non ci posso credere!” ed il contratto per produrre quest’album fu pronto in un amen. La casa discografica si riservò di fare le cose in grande, offrendo e talvolta imponendo al bassista prestigiosi partners musicali, ma qui non ce n’è per nessuno: il brillante pianoforte di Herbie Hancock, le robuste voci soul di Sam&Dave, il sax di Michael Brecker, le percussioni dell’amico Don Alias, l’orchestra, tutto viene spazzato via dallo tsunami bassistico che si infrange, attraverso questo disco, sulle coste del mondo musicale conosciuto.
La combinazione di energia, inventiva, perfetto timing, capacità di concentrazione improvvisativa, chiarezza di idee per quanto riguarda il suono, si unisce alle badilate di innovazione apportate dall’uso intensivo dei bicordi e degli accordi, dal “tiro” mortifero dei grappoli di sedicesimi (note cortissime) cosparsi di “dead notes” (corda pizzicata colla mano destra mentre la sinistra la tiene smorzata, atona), dal sovrumano controllo ed efficacia degli armonici (note prodotte appoggiando il dito su di una corda e rilasciandolo senza avere premuto sulla tastiera), all’ineguagliabile canto dello strumento nei rivolti più lenti e atmosferici, capace di librarsi in note lunghe e sostenute, rilasciando una liricità e una voce che nessuno era mai stato prima in grado di liberare .
Oltre che i suoi partners, la carica di innovazione timbrica, ritmica, armonica e melodica di Jaco riesce in questo disco ad offuscare persino il resto delle altre sue virtù, e cioè il fatto di essere grande compositore, ottimo tecnico del suono, notevole arrangiatore (suoi gli arrangiamenti orchestrali di un paio di pezzi) e questo malgrado che nell’ultimo brano non vi sia neanche una nota di basso!
Due volte ho avuto il piacere di ammirare il più grande bassista di tutti i tempi sul palco, naturalmente coi Weather Report. Se della seconda occasione (1981) serbo un ricordo piacevole ma ordinario, essendo Jaco già strafamoso ed in notevole celebrazione di se stesso, grazie a tutta una serie di “numeri” circensi fatti ad uso e consumo della platea e comunque intercalati dal suo consueto apporto al gruppo, ho però della prima occasione un’indelebile ed emozionante memoria: si era allo stadio di Bologna, estate 1976. Gran kermesse jazz rock con in apertura Tony Esposito, a seguire il gruppo di Zawinul e come gran finale la Billy Cobham & George Duke Band, formazione nuova di zecca con nelle sue file il bassista Alphonse Mouzon appena uscito proprio dai Weather. Non sapevo chi avesse preso Zawinul al suo posto, e non ero d’altronde a conoscenza di questo disco, uscito qualche mese prima.
Ebbene, partono a suonare i Weather e dopo due minuti eccomi con gli occhi fuori dalle orbite e il formicolio alla schiena, esattamente come il buon Bobby Colomby l’anno prima, a disputarmi lì in tribuna col mio amico Paolo l’unico binocolo disponibile, tenuto quasi costantemente a fuoco su quell’omino lontano alla sinistra di Wayne Shorter, in canottiera, bragoni e capelli unti, con un basso sbrecciato che fa perfetto pendant con il suo aspetto.
Ma è lui che tira fuori questi suoni? Ma come fa? Ma chi diavolo è? Ma quanto è bravo?! Questo viene da Marte! Io e Paolo eravamo colle lacrime agli occhi mentre nel vecchio stadio si librava una “pacca” sovrumana, i Report andavano come missili, e quando rallentavano il biondino straccione faceva partire delle note grosse lunghe e sinuose come pitoni, di una musicalità pazzesca e nuova.
Ancora mi commuovo al ricordo del personale benvenuto ricevuto dalla musica di Jaco Pastorius, il Diamante Pazzo della chitarra basso, un innovatore fragoroso, un genio, un fuoco divampante e come sempre succede assai presto estintosi (1987). Ora dall’anno scorso Jaco è stato raggiunto, dovunque lui sia, anche dal vecchio compare Zawinul, e allora chissà quanti peli dritti nel loro paradiso.
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