Van Halen
Van Halen
Pietra miliare di un certo modo di approcciare il rock duro in maniera epidermica e insieme spumeggiante e attraente, specialmente per le teste ancora in formazione ideologica accompagnata al pieno subbuglio ormonico dei musicofili più giovani, questo lavoro che si sta avvicinando ai quarantanni mostra decisamente la corda, soprattutto nella copertina: al momento i fuseaux attillati col pacco ben in rilievo, le camicie sbottonate a ostentare il petto villoso e il microfono messo oscenamente sul cavallo sono quanto di più buzzurro si possa considerare.
Quando uscì il disco, in Europa specialmente, se lo filarono in pochi ma questo è il destino dei pionieri: insieme ai primi due album dei Boston, dei Foreigner, dei Toto e dei Journey (Steve Perry-era) linizio di carriera discografica dei Van Halen diede la stura a un primo, notevole modo di coniugare il rock pesante con il pop, le chitarre lancinanti con i ritornelli anthemici e ruffiani. Tempo qualche anno, con lavvento degli anni ottanta, e linvasione di questo tipo di musica e concezione di spettacolo divenne totale, straordinaria, eccessiva ed i Van Halen erano divenuti uno dei primi nomi a livello mondiale, e tutto questo con ben poche frecce al loro anco, ancorché dominanti e decisive.
In ordine di importanza: in primis la visione chitarristica del solista Eddie, rilevante sia dal punto di vista tecnico che sonoro che addirittura liuteristico, sia per quanto riguarda i mirabolanti assoli (per i quali è soprattutto famoso) che per le ritmiche (per le quali, a torto, è assai meno preso in considerazione); di seguito, lindubbia e notevole carica energetica e motivativa del quartetto, sanamente determinato a far casino e sfondare ed infine limpagabile sessismo festaiolo, tamarro quanto innocuo, ottuso quanto indispensabile alla bisogna di fare spettacolo e non soltanto musica per divenire universali ed accettabili a banda larga, del frontman David Lee Roth, assai modesto cantore ma provvisto di quellinfinita pienezza di sé atta ad irrorare di comunicativa la proposta musicale.
Tutto questo riusciva in maniera più che egregia ad ovviare alle pochezze del quartetto, ovvero al repertorio inevitabilmente abbarbicato al penetrante e bombastico riff di turno del chitarrista (talvolta geniale, beninteso) e poi al suo guizzo agilissimo e sfrenato a metà canzone, nellattesissimo break per il solo. Le linee melodiche del canto erano poi sempre di modesto respiro e inventiva, mentre nulla si poteva dire di male della sezione ritmica, sicuramente più che solida e compatta anche se priva di vera genialità, dote questa esclusiva del chitarrista da loro servito il caposcuola Eddie Van Halen.
Di questalbum gli episodi più noti sono uno strumentale (la breve e ultra seminale Eruption, palestra di allenamento per una generazione e mezza di aspiranti chitarristi) e una ben vitaminizzata cover, ossia la Kinksiana You Really Got Me, ma gli appassionati stravedono anche per liniziale Running With The Devil, lapripista che a suo tempo sturò le orecchie a chi di dovere in direzione del cosiddetto brown sound di Eddie, una faccenda di trasformatori sovralimentati e di magneti super avvolti che gli consentiva un suono gigantesco e ricco, pur adottando un tocco leggero e pulito su corde oltretutto molto sottili montate in tutte le sue chitarre; altra canzone fortunata è Aint Talkin Bout Love, dal tonitruante riff a fatica dominato dalla voce limitata ma sorniona, da gattone di Roth.
Col rispetto e la considerazione dovuto alle opere musicali rappresentanti una svolta, un simbolo, un punto di riferimento, ma anche con la consapevolezza circa la presenza di precise limitatezze e pochezze melodiche, giudico questopera attraente ma tuttaltro che un capolavoro. Il rock ha dato album assai migliori di questo a decine, anzi a centinaia, ma questa è solo la mia opinione da queste considerazioni il mio voto positivo, ma non eccelso.
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