David Sylvian
Manafon
L'essenziale. O della ricerca dell'essenziale.
Non esiste termine più adatto per descrivere il nuovo percorso ormai intrapreso da Sylvian a partire da Blemish, in questa seconda vita della sua carriera solista.
Messe in soffitta le ambizioni di un cantaurato soffice, mai banale, denso di melodie, ballate e scandite dalla sua indimenticabile voce, con il canto del cigno di Dead Bees On A Cake, ormai l'ex leader dei Japan ha svoltato verso uno stile sempre più scarno, dove lo strumento principale sembra proprio essere quello che esce dalle sue corde vocali.
La chitarra pare a volte interrompere come in un intermezzo le melodie che il suo cantato blandisce senza l'ausilio di nessun altro accompagnamento.
Una sorta di tour de force vocale nel quale il nostro esibisce al meglio la sua qualità migliore, senza temere il rischio di essere ripetitivo o di annoiare l'ascoltatore che ignora la sua recente svolta stilistica.
Come nel precedente di Blemish, una forte preponderanza ha la presenza di Fennesz e della sua chitarra col suo inimitabile manierismo, tanto che arriva a co-firmare ben otto dei nove pezzi in scaletta, ma a differenza di quel lavoro, è ancora più folta la compagnia che prende parte alla realizzazione del disco, realizzato in tre sessioni differenti fra Vienna (con Werner Dafeldecker al basso acustico, Martin Brandlmayr alle percussioni, Keith Rowe e Burkhard Stangl alle chitarre, oltre naturalmente a Fennesz), Tokyo (con Tetuzi Akiyama alla chitarra e al violino, Taku Sugimoto al violoncello, e nientemeno che Otomo Yoshihide e Sachiko Matsubara) e Londra (con John Tilbury al piano e nuovamente Keith Rowe con Evan Parker al sax).
Manafon dunque procede a spron battuto verso quella scarnificazione totale che è in corso nel processo di sviluppo della produzione artistica di Sylvian, e questo lo possiamo avvertire sin dalle prime battute che vengono scandite durante Small Metal Gods, dove solo due lievi battiti interrompono il silenzio e aumentano l'attesa nel sentire la voce del cantante, appena introdotta da due tocchi appena sussurrati di chitarra.
Quando il Nostro comincia a riscaldare le sue corde vocali, il sottofondo viene quasi del tutto annientato, soltanto inframezzato da sempre più radi e lontani farfuglii.
The Rabbit Skinner si muove naturalmente sulle stesse linee, con la non lieve differenza che il tutto viene qui introdotto e accompagnato un po' in meno in lontananza dal violoncello e con un piano un po' meno timido. Random Acts of Senseless Violents (titolo a dir poco geniale) torna su linee ancora più essenziali e la sua lunghezza dilatata (oltre i sette minuti) tiene a dura prova la resistenza dell'ascoltatore, che trova comunque il tempo di lasciarsi ammaliare dal candore espressivo di Sylvian.
Ma il tour de force è ancora ben lungi dall'essere finito, e con The Greatest Living Englishman, i suoi quasi undici minuti e una intro da brivido che ispira atmosfere horror, siamo sull'orlo dell'autocelebrazione e dell'attesa con la voce del cantautore britannico che arriva soltanto al minuto 2.30, e che incede lentamente (quando non stancamente) per fermarsi e ripartire. Una vera e propria forza di resistenza che comunque si trova perfettamente a suo agio nel contesto di questa ossessiva ricerca dell'essenziale che è presente in ogni battuta di Manafon.
Come in un teatro dell'assurdo alla lunghissima traccia precedente ne segue la brevissima (appena 29 secondi) 125 Spheres, un nevrotico episodio glitch.
Snow White In Appalachia possiede una struttura melodica che se non fosse così spogliata, farebbe pensare a un classico Sylvian d'annata, ma che ugualmente spicca per una maggior vivacità, rispetto al tratto un po' monocorde che ascoltiamo nelle restanti tracce del disco.
In Emily Dickinson si torna ad atmosfere più dilatate, interrotte a metà dal suono del sax, una curiosa e riuscita intrusione che si staglia dopo il cantato di Sylvian e conclude il pezzo. The Department Of Dead Letters si apre fra piano, violoncello e sassofono, quasi fosse un'ideale prosecuzione della traccia precedente, e vede Sylvian impegnato soltanto al campionamento elettronico: un vero coup de theatre in un lavoro che vede la sua vocepropenderante su tutto.
La title-track ispira atmosfere favolistiche come da titolo e chiude il disco così come era cominciato, quasi fosse l'effetto di un film dalla trama a orologio dove è facile perdersi, ma altrettanto difficile rimanere indifferenti.
Autocelebrazione? Ricerca ossessiva dell'essenziale? Esasperazione? Di certo Manafon è un disco che ha molto da dire e farà parlare certamente di sè, ed è altrettanto certo che farà dividere fra adoratori e denigratori. La nostra sensazione è che si tratti di un lavoro molto profondo almeno quanto controverso, e che il suo valore oggettivo non potrà essere chiaro che soltanto a distanza di tempo.
Quanto tempo non è dato saperlo, d'altronde questo non è certo essenziale.
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