R Recensione

7/10

David Sylvian

Manafon

L'essenziale. O della ricerca dell'essenziale.

Non esiste termine più adatto per descrivere il nuovo percorso ormai intrapreso da Sylvian a partire da Blemish, in questa seconda vita della sua carriera solista.

Messe in soffitta le ambizioni di un cantaurato soffice, mai banale, denso di melodie, ballate e scandite dalla sua indimenticabile voce, con il canto del cigno di Dead Bees On A Cake, ormai l'ex leader dei Japan ha svoltato verso uno stile sempre più scarno, dove lo strumento principale sembra proprio essere quello che esce dalle sue corde vocali.

La chitarra pare a volte interrompere come in un intermezzo le melodie che il suo cantato blandisce senza l'ausilio di nessun altro accompagnamento.

Una sorta di tour de force vocale nel quale il nostro esibisce al meglio la sua qualità migliore, senza temere il rischio di essere ripetitivo o di annoiare l'ascoltatore che ignora la sua recente svolta stilistica.

Come nel precedente di Blemish, una forte preponderanza ha la presenza di Fennesz e della sua chitarra col suo inimitabile manierismo, tanto che arriva a co-firmare ben otto dei nove pezzi in scaletta, ma a differenza di quel lavoro, è ancora più folta la compagnia che prende parte alla realizzazione del disco, realizzato in tre sessioni differenti fra Vienna (con Werner Dafeldecker al basso acustico, Martin Brandlmayr alle percussioni, Keith Rowe e Burkhard Stangl alle chitarre, oltre naturalmente a Fennesz), Tokyo (con Tetuzi Akiyama alla chitarra e al violino, Taku Sugimoto al violoncello, e nientemeno che Otomo Yoshihide e Sachiko Matsubara) e Londra (con John Tilbury al piano e nuovamente Keith Rowe con Evan Parker al sax).

Manafon dunque procede a spron battuto verso quella scarnificazione totale che è in corso nel processo di sviluppo della produzione artistica di Sylvian, e questo lo possiamo avvertire sin dalle prime battute che vengono scandite durante Small Metal Gods, dove solo due lievi battiti interrompono il silenzio e aumentano l'attesa nel sentire la voce del cantante, appena introdotta da due tocchi appena sussurrati di chitarra.

Quando il Nostro comincia a riscaldare le sue corde vocali, il sottofondo viene quasi del tutto annientato, soltanto inframezzato da sempre più radi e lontani farfuglii.

The Rabbit Skinner si muove naturalmente sulle stesse linee, con la non lieve differenza che il tutto viene qui introdotto e accompagnato un po' in meno in lontananza dal violoncello e con un piano un po' meno timido. Random Acts of Senseless Violents (titolo a dir poco geniale) torna su linee ancora più essenziali e la sua lunghezza dilatata (oltre i sette minuti) tiene a dura prova la resistenza dell'ascoltatore, che trova comunque il tempo di lasciarsi ammaliare dal candore espressivo di Sylvian.

Ma il tour de force è ancora ben lungi dall'essere finito, e con The Greatest Living Englishman, i suoi quasi undici minuti e una intro da brivido che ispira atmosfere horror, siamo sull'orlo dell'autocelebrazione e dell'attesa con la voce del cantautore britannico che arriva soltanto al minuto 2.30, e che incede lentamente (quando non stancamente) per fermarsi e ripartire. Una vera e propria forza di resistenza che comunque si trova perfettamente a suo agio nel contesto di questa ossessiva ricerca dell'essenziale che è presente in ogni battuta di Manafon.

Come in un teatro dell'assurdo alla lunghissima traccia precedente ne segue la brevissima (appena 29 secondi) 125 Spheres, un nevrotico episodio glitch.

Snow White In Appalachia possiede una struttura melodica che se non fosse così spogliata, farebbe pensare a un classico Sylvian d'annata, ma che ugualmente spicca per una maggior vivacità, rispetto al tratto un po' monocorde che ascoltiamo nelle restanti tracce del disco.

In Emily Dickinson si torna ad atmosfere più dilatate, interrotte a metà dal suono del sax, una curiosa e riuscita intrusione che si staglia dopo il cantato di Sylvian e conclude il pezzo. The Department Of Dead Letters si apre fra piano, violoncello e sassofono, quasi fosse un'ideale prosecuzione della traccia precedente, e vede Sylvian impegnato soltanto al campionamento elettronico: un vero coup de theatre in un lavoro che vede la sua vocepropenderante su tutto.

La title-track ispira atmosfere favolistiche come da titolo e chiude il disco così come era cominciato, quasi fosse l'effetto di un film dalla trama a orologio dove è facile perdersi, ma altrettanto difficile rimanere indifferenti.

Autocelebrazione? Ricerca ossessiva dell'essenziale? Esasperazione? Di certo Manafon è un disco che ha molto da dire e farà parlare certamente di sè, ed è altrettanto certo che farà dividere fra adoratori e denigratori. La nostra sensazione è che si tratti di un lavoro molto profondo almeno quanto controverso, e che il suo valore oggettivo non potrà essere chiaro che soltanto a distanza di tempo.

Quanto tempo non è dato saperlo, d'altronde questo non è certo essenziale.  

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 8 voti.
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loson 6/10
4AS 5/10
REBBY 6/10
Vasco 5/10

C Commenti

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fgodzilla (ha votato 8 questo disco) alle 10:56 del 5 ottobre 2009 ha scritto:

Come megan fox

La voce di david e' come il corpo di megan fox

e talmente bella che puo permettersi di cantare qualsiasi cosa su qualsiasi base melodica

cosi come la Fox ti farebbe girare pure vestita con un sacco della spazzatura

Totalblamblam alle 12:39 del 5 ottobre 2009 ha scritto:

ho sentito

solo qualche traccia sul tubo e a sto punto direi che io sylvian non lo comprendo più (uno dei artisti che più ho seguito per fugare dubbi denigratori che assolutamente non ci sono): qual'è la sua identità musicale oggi? visto che il disco suona "altro" e su questo ci incolla la sua voce, ormai sempre più sparata nel mixaggio in avanti da stufarmi subito, mi sembra un artista perso e chiuso in un certo auto-compiacimento troppo solipsistico...magari la proposta è sincera non lo metto in dubbio ma l'ascolto ha perso per me sostanza e fascino.

Una volta li compravo i suoi a scatola chiusa, diciamo fino a dead bees, ora neanche li scarico.

loson (ha votato 6 questo disco) alle 12:48 del 5 ottobre 2009 ha scritto:

Mmm... Inizialmente ero partito con un 7, poi - incredibilmente, considerato che adoro Sylvian - mi è ulteriormente calato con gli ascolti. E' uno di quei dischi entro cui, pur cogliendo il sottinteso emotivo che ci sta dietro, mi aggiro freddo, non coinvolto. Lo sento fin troppo neutro, come se Sylvian avesse desertificato il suo immaginario di riferimento senza però averlo rimpiazzato con elementi d'interesse. E poi strumentalmente è roba vecchiotta: improv "isolazionista" come se n'è fatto a iosa da dieci anni a questa parte (o da trenta e passa, tolti gli sghiribizzi al laptop di Fennesz). Il vero elemento di originalità, in questo quadro, è comunque la voce di David, tendente al solpismo puro e fin troppo "scollata" dal substrato sonoro. Alla fine, i brani che mi piacciono sono soltanto “Emily Dickinson” (bella deriva fennesziana a cui si uniscono il sax soprano e i cori vaporosi) e l’iniziale “Small Metal Gods”. Il resto è un andare alla deriva senza capo nè coda, IMO. Conclusione: Sylvian sta seguendo le orme del "paranoico" Scott Walker ma, in quanto a risultati, "Manafon" è ben lontano dal'avvincente (e spaventoso) "The Drift". 6,5 con tanto rammarico.

loson (ha votato 6 questo disco) alle 12:50 del 5 ottobre 2009 ha scritto:

Stoke, stavolta ti quoto! ;D

4AS (ha votato 5 questo disco) alle 13:04 del 5 ottobre 2009 ha scritto:

A me come attitudine ricorda "Spirit of eden" dei talk talk. Però quest'ultimo è un autentico capolavoro, mentre Manafon lo trovo semplicemente soporifero. Io torno ad ascoltare "Secrets of the beehive", di ben altro spessore.

REBBY (ha votato 6 questo disco) alle 15:58 del 5 ottobre 2009 ha scritto:

Ahh quanto sono d'accordo con Stoke e Loson...

Preciso sputato (eheh)

Hermann W. Simon, autore, alle 19:06 del 5 ottobre 2009 ha scritto:

loson, il paragone con il percorso di scott walker è assolutamente pertinente e illuminato!

la differenza sostanziale è che scott è DIO ahah

4as, quel sylvian non esiste più, sarebbe come chiedere a bowie di tornare ai tempi di low...e visti i tempi percorsi dall'ex ziggy, un manafon me lo tengo stretto

4AS (ha votato 5 questo disco) alle 12:34 del 6 ottobre 2009 ha scritto:

RE:

E' chiaro che quel Sylvian non esiste più. Ho citato "Secrets of the beehive" solo perchè lo adoro e credo che sia nettamente il migliore della sua discografia. Quello che non mi convince non è tanto il suo cambiamento musicale che può starci dopo tanti anni di carriera, ma piuttosto la mancanza di ispirazione che è evidente in questo lavoro. Il disco è ambizioso e lui è un artista che non si è venduto al music business, quindi tanto di cappello. Ma ciò non basta per mascherare il fatto che è un disco deludente che fa rimpiangere il vecchio Sylvian (anche quello dei Japan).

Hermann W. Simon, autore, alle 18:24 del 6 ottobre 2009 ha scritto:

guarda capisco perfettamente la delusione, l'incompresione e lo sconcerto che provi nel venire a contatto con il "nuovo" Sylvian...però a mio parere parlare di scarsa ispirazione è piuttosto ingeneroso...la sua ispirazione c'è ed è quella attuale, poi che non possa venire colta e percepita in maniera positiva o entusiasta è un'altra cosa

4AS (ha votato 5 questo disco) alle 12:11 del 8 ottobre 2009 ha scritto:

RE:

Se capisci bene la mia delusione allora significa che anche tu hai percepito che il disco non è un granché. Se il disco ti avesse conquistato avresti parlato diversamente. Cmq la verità è che artisti come david sylvian, john foxx, robin guthrie (quest'ultimi 2 tornati purtroppo con un disco tutto fumo e niente arrosto) dopo tanti anni di carriera hanno finito la benzina e quindi farebbero meglio (per le nostre orecchie) a non pubblicare più dischi ma a limitarsi al massimo a fare concerti. Ormai sono artisti che fanno tanto gli intellettuali e la parte di "quelli che sperimentano", ma poi alla fine mancano di sostanza.

Dr.Paul alle 12:34 del 8 ottobre 2009 ha scritto:

questo ancora nn ho avuto modo...ho troppa roba arretrata, ma quello foxx/guthrie è andato piuttosto bene, la mancanza di benzina nn la vedo, sai quanti prima di loro dovrebbero andare in pensione...fiuuuu

Hermann W. Simon, autore, alle 19:38 del 8 ottobre 2009 ha scritto:

per 4as

percepisco la tua delusione in merito, non alla pochezze del disco, ma alla difficoltà che si può avvertire avvicinandolo...non è certo una questione di valore l'incomprensione...e comunque vorrei chiudere dicendo che quella dell'artista è per definizione un'attività intellettuale

4AS (ha votato 5 questo disco) alle 11:11 del 9 ottobre 2009 ha scritto:

RE:

Non puoi dare per scontato che il problema è solo mio perchè il disco "non l'ho capito". L'ho già ascoltato diverse volte quindi il problema non è l'incomprensione. Qui sotto qualcuno ha citato "Tilt" di Scott Walker che non è un disco semplice da ascoltare, richiede molto tempo per essere assimilato. Però alla fine capisci che è un capolavoro. Di certo "Manafon" non lo è.

Hermann W. Simon, autore, alle 20:08 del 9 ottobre 2009 ha scritto:

no, scusami forse mi sono espresso male, io ho posto l'attenzione sul fatto che tu hai detto che gli manca l'ispirazione...poi comunque credo che fra capolavori e ciofeche, esista una ragionevole via di mezzo

Vasco (ha votato 5 questo disco) alle 18:21 del 6 aprile 2010 ha scritto:

MAH?

Credo sia il peggior disco dell'ex Japan . Il ciclo aperto con i Segreti dell'alveare e chiuso con Dead bees on a cake e' irrimediabilmente alle spalle e questo e' un vero peccato. La trasformazione di David credo( ma e' solo una mia percezione ) sia dovuta forse a delle delusioni familiari. Peccato ho tutti i suoi lavori anche le illuminati performace con Holger ( dei Can )attendiamo con ansia un back to the roots con un lavoro sconvolgente.

Best

Vasco

Paolo Nuzzi (ha votato 9 questo disco) alle 13:35 del 4 maggio 2015 ha scritto:

Disco stupefacente. L'ho adorato da subito. Certo è davvero ostico, almeno per chi non è avvezzo a certe sonorità, ma qui si raggiunge una sintesi mirabile tra il mélos e la destrutturazione o il minimalismo in un certo qual senso. Poi c'è la crème della impro-avant giapponese e non solo. Meraviglioso.