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R Recensione

7/10

Josh Rouse

The Happiness Waltz

Se nasci in Nebraska, passi l’infanzia in California ed Arizona, decidi di fare il musicista e  da adulto ti stabilisci prima a Nashville e quindi emigri in Spagna, è normale che la tua musica risenta di climi e luoghi così diversi fra loro. E che la carriera artistica, parliamo di quella di Josh Rouse, classe 1972, nata nel segno di un  songwrinting dai toni  emotivamente intensi e musicalmente sospesa fra il country ed il folk in bianco e nero, possa poi produrre un piccolo capolavoro pop come “1972”, del 2003, riuscito omaggio ai toni soft in voga nei primi anni settanta, un altro classico come “Nashville” (2005) e quindi,  approdata ai lidi della costa mediterranea,  consolidare una più  solare ed innocua vena di canzone, altalenante fra suggestioni del passato ed attualità .

Con l’ultimo lavoro, “The happiness waltz”, Rouse , ormai in pianta stabile nei pressi di Valencia dove ha messo su famiglia ed iniziato ad applicare la nuova lingua anche alla sua arte, tenta il ritorno ai climi di “1972” dopo alcune prove non disprezzabili né memorabili. E le cose, almeno sotto il profilo musicale, migliorano decisamente, riportando in superficie alcune passioni di sempre di Rouse, i seventies, insieme agli Smiths  ed alla consolidata collaborazione con il produttore  Brad Jones,  con il quale conduce  una premiata ditta di artigianato pop. 

Si inizia con una solare e saltellante ballad, “Julie”,  che potrebbe essere uscita dalle pieghe più morbide della wave degli ‘80, seguita da una delle migliori canzoni del lotto  “Simple pleasure”,  un gioiellino  di chitarre con tema ad effetto istantaneo, e da altri esempi di fine artigianato, la spigliata “A lot like magic”  con riff iniziale ispirato alla chitarra di Johnny Marr, “Start a family”, impreziosita da un armonica a bocca , “The western isles”, un salto indietro  nel tempo in cui è evidente la mano sugli arrangiamenti di Jones, uno dei punti di forza di tutto il lavoro, insieme alla voce tenera e malinconicamente  espressiva di Rouse.

 

Verso il finale il ritmo rallenta e trovano spazio le atmosfere fluide della ballad “The ocean” con larghi spazi alla slide, o i  toni dimessi del pianoforte e la vocalità agrodolce della title track,  del tutto in contrasto con il titolo. Sono davvero rare le cadute di tono sotto il profilo musicale, forse solo un ’eccesso di  zucchero qua e là , come accade  nei cori di  “Our love” , mentre il problema principale sembra risiedere nei testi.

Si può ben comprendere come un cantautore che vive a Valencia, dove ha sposato una bella ragazza spagnola (Suay, in carriera musicale pure lei), dalla quale ha avuto un figlio, fatichi un poco a nutrire le angosce esistenziali necessarie ad alimentare una forte impronta letteraria per queste musiche. E così capita che i testi trattino di “mettere a letto il bambino”, “bere un tè alla menta” o, caso ancor più grave, dello scrivere canzoni.

Peccato veniale, comunque, comprensibilissimo dato il contesto e, per gli italiani poco inclini alle traduzioni istantanee dall’inglese , anche trascurabile.

Tutto il resto può invece essere goduto a piacimento, magari con una bella Corona in mano, leggera come la musica di Josh Rouse.

 

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