Joni Mitchell
Chalk mark in a rain storm
A volte capita che il nostro rapporto affettivo con un disco non dipenda tanto dal suo valore artistico, ma dalle circostanze nelle quali ci siamo imbattuti in quelle note. Ecosì che, nel lontano 1988, una cassetta audio con Chalk mark in a rain storm di Joni Mitchell, imbarcata su un traghetto ed arrivata su unisola, anziché finire a prendere polvere in una vetrina affacciata sul porto, è diventata la compagna preferita per le ore antelucane di un militare costretto ad alzarsi molto presto per motivi di servizio. Con un paio di cuffiette ed un walkman, le canzoni di Joni mi hanno aiutato ad affrontare un lungo periodo di alienazione dalla realtà, portandomi sulle piste dei Lokota, rendendomi partecipe di strani rituali con le foglie di tè, o coinvolgendomi nelle invettive della lady of the canyon contro le storture del modo di vivere moderno (gli anni 80!), la voglia di competere e quella di guerra.
Il disco non è certo fra le opere migliori della Mitchell, ma, date le premesse, una piccola celebrazione postuma, propiziata da uno di quei ritrovamenti da bancarella dellusato, è dovuta.
Costruito intorno ai suoni sintetici dellallora marito Larry Klein, Chalk mark è zeppo di ospiti, da Peter Gabriel ( nella iniziale sincopata My secret place) a Don Henley, da Billy Idol e Tom Petty (nel rockn roll da ballroom Dancin clown, forse il pezzo più irritante dellopera) a Benjamin Orr dei Cars fino a Willie Nelson. Su tutto il drumming imponente di Manu Katchè, anima ritmica di canzoni apprezzabili ancora oggi per la sofisticata vena dellautrice nel costruire armonie vocali incrociate su diversi piani, e per una veste sonora che, per quanto molto legata al gusto in auge ai tempi della creazione, rimane esemplare esercizio nellarte della vestizione sonora.
Fra i vertici, linno alla popolazione Lakota minacciata da impianti ed installazioni militari, introdotta dalla vocalità di Iron Eye Cody, le riflessioni antimilitariste di The tea leaf profecy, la ballata in difesa dellacqua bene comune, Cool water, in duetto con Willie Nelson e The beat of black wings, il cui clima disteso ma incalzante non deve ingannare, dato che si parla di un cuore di tenebra appartenente ad un uomo diventato soldato. Il finale è da manuale: in completa controtendenza rispetto al clima sovrabbondante delle altre canzoni, larrangiamento del blues Corinna Corinna è per la sola voce e chitarra di Joni, il basso fretless di Klein ed i sassofoni del grandissimo Wayne Shorter. Tutto sommato, in quelle albe di tanti anni fa è valsa la pena restare svegli.
Tweet