Andrew Bird
Noble Beast
Si trova spesso tra i colleghi di lavoro, tra i compagni di scuola o tra i giocatori delle squadre sportive. Magari sarà capitato anche a voi di conoscerne uno, o anche di più.
Sto parlando di Paolo. Quello bravo. Quello che non sbaglia, quello che fa le cose in un determinato modo. Anzi, quello che non sbaglia proprio perché fa le cose in un certo modo. Perché è Paolo. Paolo è uno che si prepara sempre. Non si lascia sorprendere dagli eventi, non si lascia cogliere in fallo, non si mette nella condizione di ricevere rimproveri o anche semplici correzioni. Perché è preparato. Sempre e comunque. Potresti anche evitare di metterlo alla prova, di verificare, di valutare. Tanto lo sai che Paolo è bravo. Talmente bravo che anche se sbagliasse (ma non gli succede) nessuno se ne accorgerebbe. Perché Paolo, mediamente, è bravo. Il problema di Paolo, casomai, risiede proprio nel suo mostrarsi prevedibilmente bravo, nel suo essere sempre preparato, nella sua necessità di non essere sorpreso che non gli consente di sorprendere, nel suo fare le cose in un determinato modo.
Andrew Bird è uno che porta in giro la sua musica da poco più di dieci anni. Partito da Chicago, ha fatto parte prima degli Squirrel Nut Zippers e poi degli Andrew Bird’s Bowl of Fire. Questo “Noble Beast” e il suo quarto disco solista. Ha una tecnica straordinaria quando imbraccia una chitarra, un violino o un mandolino, e compone musica sostanzialmente folk. Folk del 2009, si capisce. Quel folk che piuttosto che sporcarsi le mani col blues si eleva in nitide incarnazioni pop (l’opener “Oh No”, con tanto di allegro fischiettio), quel folk che strizza l’occhio all’esotismo lounge (la bossa – sempre fischiettante – di “Masterswarm”) e che mostra di avere le sue vere radici proprio negli albori pop (“Fizz & Dizzyspells”, fischiettio anche qui).
Andrew si rivela assai capace nella semplicità di un duetto folk pastorale (“Effigy”) come nella complessità di modelli rock affini ai Radiohead (“Not a Robot, but a Ghost”, unico punto di contatto con l’elettrico predecessore “Armchair Apocrypha”), dimostrando di aver imparato la lezione di Rufus Wainwright (“The privateers”) come quella di certi Calexico (“Tenuousness”).
La sua classica semplicità e la sua innata vena melodica gli consentono addirittura di eccellere nelle atmosfere rarefatte distese su arrangiamenti barocchi di “Anonanimal”: probabilmente il pezzo migliore del lotto, grazie al bel lavoro degli archi e ad una tensione generale vicina a certo post-rock.
E allora il problema dov’è? Il problema non c’è, e lo sapevamo in anticipo. Perché Andrew è prevedibilmente ed ovviamente bravo, come Paolo. E, proprio come lui, a volte è noioso.
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