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R Recensione

6,5/10

The Claypool Lennon Delirium

South Of Reality

Del testo come metafora. Nel ritornello della prima parte di “Blood And Rockets”, “Movement I, Saga Of Jack Parsons”, si sente Sean Lennon suggerire “You better be careful boys / You’ll set the world on fire”. Il riferimento diretto è al pionieristico ingegnere aerospaziale Parsons e agli inseparabili colleghi Ed Forman e Frank Malina, il gruppo che rivoluzionò (a proprie spese) lo studio della missilistica negli anni più intensi della Seconda guerra mondiale: dietro lo spiccio biografismo, tuttavia, non è improbabile scorgere una non troppo velata volontà di autorappresentazione. Lennon e Claypool come vecchi rivoluzionari la cui patria è il mondo intero ma il cui spirito, con l’avanzare della mezza età, va educatamente mitigandosi? Interpretazione discutibile, perché nel passaggio al secondo movimento (“Movement II, Too The Moon”) il mantra sussurrato è inequivocabile: “Do what thou wilt / Love is the law”. Un pizzico di Crowley e la nostalgia per la giovinezza andata va giù: i leoni hanno ancora gli artigli.

Un’eterna promessa perennemente oscurata dall’ingombrante ombra dei genitori e mai veramente sbocciata, il maestro del crossover novantiano post-zappiano che non ha più nulla da dimostrare a nessuno: sin dalla sua genesi, una manciata di anni fa, il bizzarro incontro-scontro The Claypool Lennon Delirium denunciava apertamente il suo carattere cantieristico, un progetto in continuo divenire che all’innovazione anteponeva il gioco intellettuale, il divertimento fisico della performance – con risultati, va detto, invero abbastanza modesti (“Monolith Of Phobos”, 2016). Va sicuramente meglio a questo secondo “South Of Reality”, dove i due di ex machina – oltre a sfoggiare le loro impeccabili abilità di polistrumentisti, saturando da soli ogni credit del disco, se si esclude la sporadica presenza di Paulo Baldi alla batteria – si ricordano anche dell’importanza di scrivere buone canzoni.

Fatta eccezione per alcune storielle stralunate e ormai sensibilmente passatiste (“Easily Charmed By Fools” è la “Taxman” fiabesca che i Primus non avevano ancora realizzato, mentre piuttosto fuori luogo è l’epico montante chitarristico quasi heavy metal con cui rischia di concludersi la ludica “Little Fishes”), le coordinate stilistiche si riassestano da qualche parte fra l’acid rock degli anni ’60, lo psych-beat e le finezze progressive del decennio immediatamente successivo. Squisito melodicamente è l’andante beatlesiano di “Movement I, Saga Of Jack Parsons” (qualcuno ha definito Sean come la versione del padre filtrata da Elliott Smith: d’accordissimo), che giunge con linearità assoluta dopo la circonvoluzione crimsoniana del prologo e sfuma nel sinistro carillon di “Movement II, Too The Moon”. “Amethyst Realm” è un lento novantiano ribaltato, con molta più coerenza del previsto, in una splendida coda psichedelica (la chitarra di Lennon sembra qui accodarsi alle intuizioni del Frusciante solista). Il rodeo anfetaminico della title track (con, qui e lì, tracce di glam sparksiano) e lo zoppo funk reggaeggiante di “Toady Man’s Hour” costringono infine la coppia a concentrare le loro migliori idee in un formato da singolo, evitando alcune lungaggini di troppo (gradevole ma superfluo l’omaggio alle porte indiane della percezione di “Cricket Chronicles Revisited: Pt. I, Ask Your Doctor / Pt. II, Psyde Effects”).

Autoriale e autorevole, ma non accademico. Nel 2019 è un grande complimento.

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