Oh No Ono
Eggs
Dalla Danimarca, di nuovo. Di nuovo l’impressione, dopo un bel po’ di passaggi, di non avere la benché minima idea di cosa si stia ascoltando. Potrebbe essere il suono composto da un manipolo di alieni gay dopo un soggiorno inglese negli anni ’60. Ma potrebbe essere anche la forma del pop (psichedelicissimo) del nuovo decennio. Autoprodotto in modo assai acrobatico (registrazioni prolungate per nove mesi tra chiese e capanne nell’isola di Møn), “Eggs” è il secondo disco degli Oh No Ono, un quintetto di Aalborg che, dopo un notevole successo in patria, prova in questo 2010 ad uscire dai confini nazionali. Il tentativo era meritato e doveroso, e difatti ne hanno già parlato (bene) in molti.
Spesso, va detto, se ne è parlato sulla scia dei connazionali Mew. E qualche contatto tra le due band c’è, nella passione per le strutture oblique e gli incastri sonori compositi, per alcuni rinvii space-rock in cui voci effettate ricreano con synth e chitarre stravolte una dimensione decisamente autre, per l’ambizioso mix di cultura tecnico-classica e ammiccamenti ultra-pop al limite dell’istrionico. Poi, certo, sono molte le differenze, e a spiccare sarà soprattutto la maggiore giocosità degli Oh No Ono, più sbarazzini e burleschi degli amici (e compagni di tour, ora). Qua, più o meno, si viaggia sulle frequenze di uno psych-pop barocco e sgargiante, spesso volutamente kitsch, in cui i Beatles più drogati vengono mescidati con gli Sparks glam al top del delirio, con molta orchestralità teatrale (i Queen at the opera, ma in uno spettacolo buffo) e carnevale a go-go.
E allora è un trionfo (ma davvero, eh: musica festosissima) di disarticolazioni stravaganti (“Eleanor Speaks” nel primo minuto è almeno tre canzoni diverse, per poi sfumare in intarsi di clavicembali e sitar), rese ancora più camp dalla voce stridula/acidula di Malthe Fischer, e fuochi d’artificio interstellari (“Internet Warrior”: gli MGMT invidierebbero), costruiti di puzzle sonori quasi mai ricomponibili, in un’accozzaglia di strumenti che ci si arrende a prendere come coriandoli in faccia. I pezzi più spumeggianti sono anche i migliori, perché contagiano nella loro demenza visionaria. Alcuni (prodigio!) rimangono anche in testa, fissando qualche frammento di melodia: “Helplessy Young” è tutta nel suo ritmo cadenzato dalla voce gracchiante di Fischer e nella glammosità sbrilluccicosa dei suoi ritornelli, mentre “Miss Miss Moss” è pura caricatura rock’n’roll macchiata di tocchi space-8bit, con un assolo di chitarra sublimemente parodistico e un finale casinista da festival (chessò: Mika che incontra i Flaming Lips). “The Tea Party”, poi, è un’esplosione di gaiezza freak, con i cori e la voce effettata in modalità festa-trash (quelle in cui si fa il trenino soffiando sulle trombette di carta) che sembrano chiedere a chi ascolta di tirare fuori la sua follia più insulsa.
Non riescono ad essere sobri neppure quando rallentano i ritmi o mettono via i lustrini, questi danesi: l’aria di molti pezzi è da melodramma semiserio (“The Wave Ballet”), musical corale per romantici narcisisti (“Eve”: canta il chitarrista Aske Zidore, che gioca a fare l’Antony), opera rococò tutta piano staccato e archi plateali: in “Icicles”, ad esempio, il modello degli Sparks sinfonici di “Lil’ Beethoven” è smaccato (ma tutti i fratelli Mael qui, con la loro divertita psicopatia pop, aleggiano in continuazione). “Swim”, invece, è una fioritura liberty di cineserie, scampanii e bassi acquosi: ipocondria morbosa.
Per chi vuole divertirsi, perdersi, lasciarsi disorientare. I giullari del pop stanno qua.
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