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R Recensione

6/10

Luca Bassanese

La Rivoluzione

Il limite che mi impedisce di apprezzare in pieno “La Rivoluzione” – e che, sono sicuro, sarà la spada di Damocle sulla testa di molti altri ascoltatori – ha origini onestamente, profondamente, schiettamente morali. Per farla breve: non possiedo il semplice ottimismo che pervade, da cima a fondo, le canzoni di Luca Bassanese. Non riesco, ancora, a trovare ragioni valide per esserlo. Non rischierei di puntare sulla durevolezza di questo nuovo, benedetto mondo che eppur si muove (ma come…? e per quanto…?) e, pur convinto della necessità di tornare a guardare in faccia i propri interlocutori e di saper ascoltare, ancor prima di parlare ed affermarsi, credo che la metamorfosi culturale di cui abbisognerebbe da tempo il nostro paese sia ben lungi dall’affermarsi. Bassanese si pone dal lato opposto: fiducia nella democrazia, nell’essere umano, nella “signora speranza”, contro il potere cristallizzato e le caste, in perpetua marcia verso il sole. Chi non ha praticità con le tinte popolari da teatro/canzone del nostro cantastorie, insomma, rischia di incappare in brutti pregiudizi, limpidezza d’intenti confusa per spicciola façade, fiducia nell’avvenire fraintesa per la solita, ingenua utopia. Chiacchiere sommarie, a ben vedere. Piuttosto, è ora di chiedersi: possibile resuscitare la definizione di “attivista”, oggi? Se lo credete, Luca Bassanese corrisponde al profilo cercato: la voce delle minoranze, il volto dei beni comuni, la laica cassa di risonanza oltre le fittizie barriere di sesso, razza, lingua e religione.

Sempre più a suo agio con il concetto di “brano” come serbatoio di memoria collettiva ed aurale, caricato di accenti drammatici ed espressivi ed immediatamente memorizzabile – fruibile, se vogliamo, come prima e diretta conseguenza – da ogni fascia e ceto sociale, il trentasettenne vicentino scrive allora, con l’aiuto dei consueti arrangiamenti di Stefano Florio, un quarto disco, “La Rivoluzione” (pacifica, non-violenta, gandhiana o dongalliana a dir piacendo, si sottintende), proiettato in avanti verso un solo obiettivo: la ricerca di una forte interconnessione per propagare, a lettere nitide e comprensibili, un messaggio. Quale la sua natura, non serve stare ancora a specificarlo. Abbandonate in parte le velleità world e latin che avevano colorato gli slanci pop del precedente “Il Futuro Del Mondo”, Luca Bassanese torna così all’amore di un tempo, la “vecchia” canzone italiana e i 2/4 circensi per bande popolari, tra fiati, tamburi ed il consueto dispiego di più registri vocali ad impersonare maschere d’avanspettacolo, ad incarnare stati d’animo, a tuonare sopra piccole tragedie e grandi nefandezze dell’attualità quotidiana. Il modus operandi, oramai, lo si conosce bene. Per un po’, tuttavia, il dialogo sembra divenire soliloquio, con un singolo – “Qui Si Fa L’Italia O Si Muore” – ancorato ad una frusta fanfara orchestrale con crescendo emotivo del tutto “italiano”, ahimè, nel senso melodicamente deteriore del termine, ed un seguito quasi invariato sul piano armonico, “La Casta”, con slogan cantati a presa rapida (“È la Casta / questa cosa oleastra / appiccicosa e conformista / che non sai come lavare, pulire, smacchiare”) ed hook smaccatamente pop – a scansione quasi ska, opportunamente rallentata – intarsiati da sax e clarinetti.

Il disco, in seguito, comincia a presentare momenti più interessanti, slegati dal meccanicismo del coinvolgente confronto dal vivo (un dvd, a tal proposito, è di prossima registrazione). Il Coro delle Mondine di Bentivoglio – professione non lasciata al caso… – trasforma l’ottima “La Canzone Del Laureato” in un amaro girotondo che facilmente troverebbe posto sulla collina di Spoon River, e che avvicina notevolmente, forse per l’ultima volta?, Bassanese al De André circolare e scheletrico di “Vol. 3” (“E tu cara amica, anche tu laureata / Figlia di madre di un fu ’68 / chi ti consiglia ti dice di darla / al primo colluso di un padre corrotto”). “Ma Cos’è Questa Crisi?” rivisita, con spietata ed intelligente ironia, uno standard di Rodolfo De Angelis del 1933: sconcertante la giustapposizione di riquadri caricaturali dei “postulanti”, come a dire che da una depressione all’altra nulla sembra davvero cambiare. “L’Essere Umano”, manifesto di un nuovo ed assennato antropocentrismo, dichiarazione nero su bianco dell’aspettativa verso l’”uomo” “al di sopra delle nazioni / degli eserciti, delle opinioni / fuori dall’ideologia”, arriva a tessere le fila di un romanticismo introspettivo che si sfoga a pieni polmoni nei cromatismi Youssou N’Dour di “Signora Speranza” e nel recital conclusivo, “C’è Un Mondo Che Si Muove!”, già conosciuta ai tempi delle battaglie nel comitato Acqua Bene Comune (sembrano passati secoli da quel decreto Ronchi, di appena due anni fa), figlia di una sensibilità che non dimentica tuttavia il suo lato più istrionico, soddisfatto dalla complessità interpretativa del klezmer teatrale di “Vogliamo La Testa Del Re!”.

La Rivoluzione”, nel complesso meno brillante rispetto al precedente capitolo, e sovente in affanno sul versante strumentale, è un altro lavoro di Luca Bassanese, da intendersi come s’intendono ormai i trademark codificati: dischi sobri, essenziali, solari, che parlano al cuore e che tutti, volendo, possono arrivare a capire. Che sia questo, in fondo, a dare davvero fastidio?

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Lezabeth Scott alle 13:12 del 11 ottobre 2012 ha scritto:

Sembra Caparezza che suona cabaret-folk con la banda del paese. Però il Coro delle Mondine è fenomenale: forza ragazze!!!