Primus
Green Naugahyde
Les Claypool è uno sborone. Anzi, peggio: è uno che fa apparire sempre semplicissime anche le cose più difficili. Un diavolo per ricciolo. Uno può suonare per anni ed anni e ritrovarsi con in tasca la metà della naturalezza con cui questo cinquantenne martoria, in decine di modi differenti, il suo basso fretless. Botte, volute, assoli, giri, raga, suite, slap, slabbrature, qualsiasi cosa vi venga in mente probabilmente l’ha già tirata fuori. Les Claypool è uno che si può permettere di arruolare un signor chitarrista, come Larry LaLonde – uno, per capirci, a cui hanno appiccicato addosso, forse un po’ ingiustamente, l’etichetta di “Robert Fripp del Duemila” – e poi tenerlo all’angolo, in ombra, costretto a sorbirsi le mirabolanti evoluzioni del suo strumento. Non esattamente quel che si direbbe lavoro di squadra, potrebbe pensare il neofita. D’altro canto, l’ha sempre messo in chiaro: il suo trio fa schifo. Eppure i Primus, nel 1991 come nel 2011, rimangono così: compatti, coesi, stravaganti, imprevedibili. La sincerità fatta crossover.
Chi potrebbe pensare che, da “Antipop” fino ad oggi, non vi sia stato un naturale continuum ma, invece, uno iato di una decade che ha rischiato di ingoiarsi speranze, ambizioni e prospettive di un’intera generazione? Dall’essere in bilico sull’orlo del precipizio al risalire impetuosamente la china: “Green Naugahyde” ha un sapore antitetico al precotto plastificato meccanicamente servito ad ogni pedissequa, stanca reunion, proprio perché non è sentito come ennesimo tassello gravato dal “dovere” coatto di un ritorno peraltro non imposto da nessuno. Semplicemente, i Primus sono tornati per un’altra sfumatura modale, un dovere spontaneo e creativo che si rigenera da solo qualora si percepisca l’effettiva necessità di dare degno seguito ad una carriera, fino a qui, (quasi) ineccepibile. Con un fil de rouge formalmente eccezionale, i tre musicisti californiani saccheggiano gli highlights della propria carriera, operando in direzione di sintesi passata e ricostruzione contemporanea.
Brandelli di senilità, è inutile nasconderlo, si avvertono inevitabilmente, malgrado la controversa ipertrofia di Claypool, a tratti cristallizzato in un santino zappiano che prevede un copione di eccentricità sempre e comunque – l’andantino circense “Eternal Consumption Engine”, che per un attimo sembra richiamare “Misirlou”, il sincopato rapcore di “HOINFODAMAN” con un idealizzato Tom Morello sotto valium –. Il basso, complice anche una pulitissima produzione finalizzata allo scopo, straborda da ogni lato: la sensazione che potrebbe attanagliare i non habitué è di assistere, impotenti, all’orchestrazione di un disco solista, con l’aggiunta di varia strumentazione che, all’occorrenza, si tramuta in inoffensiva bigiotteria, graziosi ninnoli di contorno (esplicativo è il singolo “Lee Van Cleef”, con il contributo di LaLonde bruciato nell’ambito di un semplicissimo riff in levare) e, sui generis, un predominio mentale e concettuale del melting pot degli anni ’90, in una fusione intergenere allora spericolata, ora standardizzata (“Hennepin Crawler”).
Eppure “Green Naugahyde” non vuole suonare nuovo, vuole suonare dinamico. Divertente, perché divertito: la bellezza di saper coniugare stile a stile è che spesso, nel farlo, il mestiere diventa puro intrattenimento, per sé e per gli altri. “Extinction Burst”, perla composta probabilmente in stato di grazia, incasella un fuoco d’artificio dentro l’altro, serratissimo prog ispanico interpretato da un’orchestrina di burattini in plastilina. “Tragedy's A' Comin'” distrugge la blaxploitation entro uno squittente, quadratissimo funk. In “Eyes Of The Squirrel” fa capolino la psichedelia distonica, stralunata e giocattolosa che, nel giro di cinque minuti e mezzo, si disintegra e rimodella sugli spigoli alieni di “Jilly's On Smack”, poliedro crimsoniano dalle tinte claustrofobiche. “Green Ranger” fa quadrare incredibilmente il cerchio, aggiungendo tesi vibrati d’archi in un’elegia cinematica che sembra quasi uscire dal “Crash” di cronenberghiana memoria.
Ora, tutti in coro: Primus’ reunion sucks!
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