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R Recensione

6/10

Qui

Snuh

A partire dall’uscita del buon lavoro inciso in collaborazione col tuttofare Trevor Dunn (Joyful Noise Recordings / Macina Dischi, 2017), i losangelini Qui hanno imboccato un sentiero di relativa prolificità che li ha condotti verso una seconda giovinezza creativa e che, in un arco temporale abbastanza ridotto, li ha portati a condividere con gli italiani MalClango il sesto capitolo della collana di split in 12” coordinata dalla Subsound Records (2017), un altro split con gli Ultrakelvin (2017) e, infine, il disco lungo “Snuh”, il primo interamente a proprio nome dall’autoprodotto “No-Legs” (2014). Matt Cronk e Paul Christensen sono il perfetto ritratto degli outsider, nomi minori della composita e frammentata galassia noise a stelle e strisce che, pur costeggiando – a tratti anche da vicino – i più noti territori della categoria, per scelta o per caso, non ne sono mai veramente entrati a far parte. Colpa (o merito?) anche delle coordinate stilistiche battute dal duo, non esattamente nello spirito dei tempi: un tecnico crossover novantiano, tipicamente eccessivo ed autoironico come nella miglior tradizione del genere, che zigzaga con inclassificabile (e quindi classificabilissimo) fare beefheartiano fra i generi più disparati.

Snuh” non fa differenza: per certi versi, anzi, è il disco in cui la filiazione zappiana del duo americano si fa più forte ed evidente, a discapito di certe pronunciate escoriazioni rumoristiche (limitate al contratto synth-core di “Mowing Machine”, con l’ospite Justin Pearson alla voce). È un continuo e a tratti estenuante gioco intellettuale dalle regole arcinote, che accosta falsetti parodistici a poderose colate sludge (“Pomp And Circumstance”, più avanti ripresa con minime variazioni in “Pumpy Circumstance”), inscena vaudeville minimali a libera divagazione chitarristica (“Escape From Now”), incastra progressioni post-core in un rimpallo strumentale à la Sparks (in “Hey, Brother” fa la sua comparsa ai cori Dale Crover), trafigge rabbiosi dissing con disarticolati fraseggi Mr. Bungle (“How Much Many More”) e piazza pure a tradimento un esilarante gospel a capella (“Forgivement”). Una scrittura a collage sì arguta e sempre sul pezzo, ma oggi, va detto, anche piuttosto vecchieggiante e, per questo, noiosetta e pervicacemente reazionaria (“You Can Call Me Shiny”), che regala un unico vero pezzo memorabile, la conclusiva “Come, Come” (elegia sfigurata da chiaroscuri e distorsioni noise, con la chitarra aggiuntiva di Adam Harding).

La conclusione è pressoché la stessa: pur riconoscendone il valore, si rimane piuttosto freddi. Forse è un’epoca conclusasi davvero per sempre.

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