Gorillaz
Demon Days
E strano che mentre iniziano a rincorrersi voci più o meno fondate su un possibile ritorno di Graham Coxon nei Blur, Damon Albarn se ne esca di nuovo col suo ambizioso progetto parallelo. Sono passati quattro anni da quando dallunderground più underground la sua collaborazione con lo stralunato fumettista Jamie Howlett ed uno dei pezzi grossi della scena rap californiana, il produttore Dan The automator Nakamura (ora momentaneamente fuori dal progetto), la band fantasma mandò in crisi Mtv e derivati che mandavano a rotazione il successone Clint Eastwood senza riuscire, come avrebbero sperato, a lanciare in diffusione planetaria anche la loro immagine, nascosta e avvolta comera attorno ad un alone di mistero.
Sei milioni di copie vendute, più degli ultimi tre dischi dei Blur messi insieme, sono uneredità pesante e difficile da eguagliare specialmente dopo il fallimentare secondo album di b-sides e remix, ma Damon ci riprova con lorgoglio e la strafottenza adolescenziale che continua a contraddistinguerlo nonostante sia anche lui ormai più vicino ai quaranta che ai trenta.
Il singolo video apripista Feel good inc. non è al livello del già citato singolo desordio, il video è sempre roba da psicofarmaci ma musicalmente rivela un piglio ottimista e ironicamente estivo tra chitarrine spagnoleggianti, dance non eccessiva ma ballabile e hip-hop. In quanto a tormentone se la gioca tutta con Dirty Harry lenta cantilena in salsa techno che Beck gli avrebbe volentieri rubato anche se il vocione hip-hop fa perdere molto ad atmosfere prevalentemente cupe dalle venature dark. Last living soul avrebbe potuto lasciarla ai Blur, decadente con quel duetto vibrante tra archi angoscianti e una disperata voce femminile campionata. Green world con il suo riff post-punk sommerso e offuscato dalla secca linea ritmica tra basi, batteria e tastiera che strizza locchio agli 80s.
Tutto sotto la supervisione del Dj DangerMouse, il maestro destrutturatore del mash-up famoso per aver mescolato il White album dei Beatles al Black Album di Jay Z. Taglia, brucia, dissolve, mixa, intreccia come solo lui. E non a caso in diversi passaggi si avverte chiaramente la sensazione di essere scivolati in un buco nero dove trip hop, beat, blues, brit, soul, elettronica e rap si mischiano in un vortice acido e claustrofobico. Strabiliante il blues modernista di Every planet we reach is dead aperto da wah-wah, sfocia in pianoforte e organo perfidi, archi e synth in fiati allLSD. All alone è il punto di contatto tra Air e dub inglese nei suoi intrecci vocali vintage.
In White light sembra che i Chemical Brothers abbiano remixato il Beck di Mellow Gold. A rendere ancora più variegato il lavoro lo sterminato numero di collaboratori da De La Soul, Neneh Cherry, Martina Topley-Bird, Shaun Ryder degli Happy Mondays. Ike Turner, marito di Tina. Trascurabili invece i distillati rap di November has come e All alone dove per fortuna cè Damon che riesce con il suo tocco a staccarne letichetta di semplici riempitivi. Dare è un flashback che ci riporta in un club di due decenni fa.
E poco chiaro il motivo per cui si scelga nella titletrack conclusiva di dare pieno spazio al coro della Gospel London Community in un brano alquanto anomalo aperto da archi cinematografici che vira in un soul liberatorio in andatura reggae. Due perle la precedono e sono entrambe degli omaggi.
Lomaggio più o meno esplicito ai Beach Boys e Brian Wilson nella soffusa filastrocca surf di Dont get lost in heaven. Lomaggio al vecchio Dennis Hopper, il leggendario Billy di Easy Rider, che si cimenta in un imprevedibile reading su base hip-hop. E' "Fire coming out of a monkey's head". Piccola annotazione. Tutti i titoli nascondono un'amara ironia.
Cera una volta ai piedi di una grande montagna, una città dove gli abitanti vivevano come un popolo felice
La loro esistenza era un mistero per il resto del mondo
Oscurata comera da grandi nuvole
Risponde Damon, chitarra e voce, nostalgico e malinconico, quasi nei panni di un menestrello che racconta nel rimpianto la meteora del mito on the road in un quella che sembra una metafora del fantasma chiamato Gorillaz, perso nella sua dimensione fiabesco-psichedelica minacciando di cambiare un mondo che sa di non poter cambiare.
Oh piccola città degli Stati Uniti, il tempo è trascorso per farci capire che
Non cè niente in cui si crede che si vuole
veramente
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