White Stripes
Icky Thump
Anni or sono avvicinai i White Stripes spinto da una curiosa quanto sobria empatia. Scarsa affettazione compensata da un sereno, appagante distacco analitico. Puro spasso da pensiero divergente, apertamente anti-intellettuale. In altre parole non ero un loro fan sfegatato, nè mai lo sono diventato, ma apprezzavo istintivamente il loro disinibito contributo alla riscoperta delle radici della musica rock. Le coordinate stilistiche indicavano una rotta in diametrale e geometrica opposizione con il post rock di fine millennio.
Al punto che, in ossequio al mondo delle antitesi e delle volatili definizioni, venne quasi spontaneo consegnarli alla posterità con l’etichetta di “pre-rock”. Un registro impressionistico e citazionista capace di riportare sullo zero la lancetta dell’evoluzione musicale per poi farle ripercorrere l’intera scala dei gradienti fondamentali allineati lungo la storia recente della musica americana. Dallo stomp al rhythm’n’blues, dal blue-grass al rockabilly, dal garage-beat all’hard-rock, questo grossomodo l’almanacco dei generi riempito nel corso dei primi due album, White Stripes (Sympathy, 1999) e De Stijl (Sympahty, 2000) e dalla manciata di singoli che li precedettero.
Più che l’urgenza e l’intensità con cui i coniugi White si rapportavano alla tradizione, a colpirmi fu la particolare fattura dei pezzi: piccoli estratti atonali senza epoca e per questo ruvidamente attuali, miniature roots caricaturali e fossili di arrangiamenti che lanciavano ipnotici ultrasuoni attraverso la post-modernità. I monotoni colpi di piatti e “charlie” affastellati da Meg e i riff miliari eppure disincantati di Jack, testimoni chiave che ribadivano: “se tutto è già stato fatto, allora si tratta solo di farlo meglio, o perlomeno con più ironia”.
Con White Blood Cells (Sympathy, 2001), invece, s’instaura una sorta di altalenante dicotomia fra il “distaccato entusiasmo” dei primi episodi e il “revisionismo per le masse” del successivo Elephant. In pratica il duo di Detroit comincia a prendersi un pochino più sul serio, a nutrire la fondata speranza che quelle song possano a loro volta diventare degli archetipi ed essi stessi delle icone. E così sarà. Elephant (V2, 2003), benedetto da un capillare lancio pubblicitario, rompe l’argine della mediazione e porta a compimento la metamorfosi. Da un giorno all’altro i Nostri si risvegliano delle superstar, gli artisti più strombazzati e semiologicamente influenti dei primi anni duemila.
Get behind me, Satan (V2, 2005) denuncia ampiamente il disagio che si annida nella favorevole congiuntura degli astri: non si sforza neanche di riproporre i cliches del suo predecessore ma punta disperatamente ad espandersi in tutte le direzioni conosciute. Se in molti, all’epoca, avevamo definito Get behind me, Satan “il disco del pianoforte” ovvero della fragilità, allora il nuovo Icky Thump potrebbe essere quello della distorsione e della pesantezza (dell’essere? Mah...).
L’opener (che è anche primo singolo e title-track, fin troppe responsabilità per una scrittura abbastanza modesta) Icky Thump prova ad essere “catchy” come i suoi illustri predecessori ma ha le ali piombate da un giro pomposo e stratificato e da una chitarra effettata che suona come una cornamusa. Al canto Jack può esibirsi nel suo numero di vaudeville preferito: l’imitazione sguaiata e vignettistica di Robert Plant. Seven nation army anche per quest’anno non avrà un erede, e magari è meglio così. You don’t knowwhat love is, classico pezzo “striato” alla Elephant, è più esile e godereccio ma anche terribilmente frivolo e AOR.
Al contrario, 300 mph torrential outpoor blues rimanda a Get behind...;sghemba, acustica e più lunga della media, assomiglia ad un capitolo di Let it Bleed ritoccato da brevi inserti di elefantiasi chitarristica. Conquest, invece, fa proprio schifo. Sorta di bolero-rock con trombe mariachi e stornelli latineggianti, forse un inedito ed infantile omaggio al quartiere di Mexicantown dove Jack è cresciuto. Pietra sopra. Molto meglio Bone broke, proto-punk detroitiano veloce, cattivo ed essenziale come prevede un copione del genere. Prickly thorn butsweetly e St.Andrews, this battle is in the air compongono un dittico folkloristico stile Bron Y Aur.Sono i postumi mordaci di una cattiva sbornia celtica. Page & Plant si che sapevano mescere, Jack, scherza coi fanti ma... ecc. ecc. A cavarci d’impaccio giunge opportuna Little CreamSoda, psichedelia tronfia e monumentale fra Royal Trux e Blue Cheer, uno dei loro riff più duri di sempre. Rag bone è un buon garage-blues screziato da mai sopite reminescenze “jon spenceriane”, peccato solo per i mortiferi motteggi da cantina con cui Meg e Jack intervallano il pezzo. I’m slowly turning into you è un bis “elephantiano”, volenterosamente acido, arido e sabbioso ma anche lento e pesante come impone il nuovo corso. A martyr for my love of you potrebbe essere la ballad più esplicita e magniloquente della loro carriere, l’anello mancante fra Jolene e I justdon’know what to do with myself, se non venisse progressivamente enfiata e zavorrata dalla consueta overdose di distorsione. Catch hell blues mantiene ciò che il titolo promette: parte come uno Delta-blues spiritato e prosegue lentamente, seviziata da break e ripartenze elettriche in stile Chicago anni’50;i micro-assoli di Jack serpeggiano abrasivi come pochi e il brano nel suo complesso è forse il migliore dell’intero album. Effect and cause chiude con un roots-rock venato di country, quasi un ritorno alle origini. Tirando le somme, Icky Thump non è affatto un disco indegno, tutt’altro, il problema, se vogliamo, è differente: i White Stripes sembrano aver definitivamente smarrito l’ariosa e scanzonata fluidità del loro songwriting migliore, si affaticano elucubrando soluzioni concettose laddove un tempo giostravano illuminati aforismi con fare spontaneo e naturale. Pare che Meg abbia addirittura imparato a suonare la batteria , anche se la cosa non è necessariamente un bene.
Per il resto, Jack sembra barricarsi sempre più spesso dietro una corazza di immobile e paludata sicurezza sonica forse per nascondere l’incapacità di smontare dall’interno un’intelaiatura stilistica che non sente più sua. Fase di transizione o pietra tombale? In attesa dell’ardua sentenza gli consiglierei di darci dentro con i Racounters dove ultimamente è sembrato molto più a suo agio.
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