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R Recensione

5/10

TV Buddhas

Dying At The Party

Avevano suscitato un certo interesse con il robusto e roboante esordio omonimo datato 2009, poi confermavano le buone impressioni con un ep che pur mantenendo un approccio seccamente vintage e retro metteva sul vassoio una discreta miscela esplosiva.

Ora però i Tv Buddhas cominciano ad avere già il fiato corto, nonostante arrivati appena al secondo lp. Se i dischi precedenti erano un anacronistico ma carburato e grintoso mix di Velvet Underground, Stooges, Mc5 e Modern Lovers con Dying at the party il gruppo riesce a mantenere solo la facciata più pallida di quell'estetica travolgente.

Dopo le chitarre ashtoniane e dinamiche di Let me sleep (unico brano ripreso dall'ep recente da noi recensito) che aprono il disco c'è infatti ben poco di memorabile: innanzitutto si accentua la tendenza a rallentare i ritmi abbassando i suoni sempre più curati nella produzione. La perdita di un low-fi dal fascino perenne non si compensa con l'arrivo di un qualsiasi facsimile di Brian Eno in grado di dare una svolta alle musiche del gruppo israeliano, che entra quindi in un vicolo cieco che porta al disastro.

Si scade in ballate ultraclassiche, vecchie (meglio dire decrepite?) e insipide come No edge at all, o in brani manieristi in cui si ripetono schemi Mc5 in maniera pacchiana (It doesn't feel good), correndo senza una meta con il freno a mano tirato (Dying at the party), o attestandosi su livelli privi di sorpresa e inventiva, volti a ripetere senza entusiasmo la lezione di Iggy Pop (TV Tonight), arrivando addirittura a suonare la brutta copia dell'indie-rock dei tardi Strokes: lo dimostra My life on screen, brano un po' paraculo dove si sfrutta qualche trucchetto valido ma nel complesso si sente puzza di muffa senza alcuna virtù sentimentalistica.

Si riesce perfino a tirar fuori inutilmente lo spettro di Tom Verlaine, preso ad esempio nelle mosce fughe chitarristiche di Long way down.

Unici spunti degni di nota I want you, blues elettrico ritmato e tono da cantastorie wave, e la sublime I don't belong in this world, unica vera gemma del disco: partenza cupa ed epica che esplode in un riff davvero incendiario e degno dei migliori Wipers.

Tutto qua in effetti, per un disco in clamoroso calando dopo una partenza nel complesso più che discreta. Un po' pochino per essere salvato nonostante la possibilità di sfruttare a piene mani il repertorio dei grandi mostri sacri del garage rock.

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