R Recensione

8/10

Belle And Sebastian

The Life Pursuit

Mentre l’ex violoncellista e voce Isobel Campbell pubblica il suo secondo lavoro insieme a Mark Lanegan, il redivivo collettivo scozzese torna sulla scena a tre anni di distanza dalla svolta di “Dear catastrophe waitress”. Prolifici come pochi, è il settimo album in dieci anni di carriera, e affiancati da Tony Hoffer, produttore tra i più influenti dell’ambito (Beck, Grandaddy, Supergrass, Turin Brakes) continuano la loro personalissima evoluzione. Lo scarno minimalismo degli albori che li aveva portati alla ribalta è ormai un vecchio ricordo. In linea con il precedente lavoro l’approccio lo-fi è definitivamente lasciato alle spalle. Come dimostra subito il singolo apripista, “Funny little frog”, beatlesiana nella sua limpida malinconia, anche se convince a pieno solo nell’ammaliante stacchetto tra fiati confusi e sfibratissimi assoli di chitarra. Che ricorrono in più fasi di questo “THE LIFE PURSUIT” (svago o inseguimento della vita?). “Another sunny day”, sincera dichiarazione d’amore di un giovane in piena crisi esistenziale, svela inaspettate suggestioni country-folk. Tra i due atti degli apostoli, “Act of Apostle part.1” , storia dei tentativi di automiglioramento di una corista, e “Act of Apostle part.2”, la campagna come rassicurante rifugio di una spiritualità messa a repentaglio dalla cinica realtà cittadina, risulta più convincente il primo, opening-track calda e rievocativa.

Il mondo degli ineffabili BELLE & SEBASTIAN è sempre più variegato e multiforme. Si passa bruscamente dal soul onirico di “Song for sunshine” al bizzarro funk molto vintage di “We are the sleepyheads” passando per l’incalzante glam bolaniano di “The blues are still blue” . Arrangiamenti curati in maniera maniacale. Bassi incisivi e a tratti addirittura prevalenti. Linee vocali vibranti.

Il filo conduttore è sempre la cruda quotidianità, tra crisi e interrogativi angoscianti, come da consuetudine, nascosti sapientemente dietro al velo di apparente leggerezza che avvolge i brani. Storie di personaggi modesti. Fragili e insicuri. Sensibili, ma imponenti dinanzi al flusso degli eventi da cui sono ineluttabilmente sovrastati. Come in “White collar boy”, sconvolgente ad un primo ascolto per via della controversa ritmica disco introduttiva e per i synth oltremodo patinati immersi in divertiti falsetti. Tra Beach Boys e Fiery Furnaces. Oppure in “Sukie in the graveyard”, la ragazzina che amava bazzicare per il cimitero del suo villaggio. Anche se in questo caso l’atmosfera è molto più vicina agli episodi più movimentati della band di Glasgow.

Sonorità più caratteristiche, piano disperato e voce rassegnata da risposta scozzese a Morrissey, riecheggiano, per la gioia dei vecchi fan, nella soffusa “Dress up in you”, malinconico sfogo di un giovane provato da infiniti rimpianti, quanto nella pacata conclusiva “Mornington Crescent”.

Stuart Murdoch e compagni si rinnovano e, al di là delle contaminazioni più o meno discutibili o apprezzabili che divideranno inevitabilmente gli ascoltatori, ci offrono ancora una volta degli inimitabili sottofondi per grigi pomeriggi invernali.

V Voti

Voto degli utenti: 6,2/10 in media su 6 voti.
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Vikk 7/10
Peppe 8/10

C Commenti

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Vikk (ha votato 7 questo disco) alle 13:48 del 27 agosto 2007 ha scritto:

non un capolavoro, ma piacevolissimo un 7,5 pieno, ma alcune volte non pienamente messo a fuoco per meritare un 8. Immotivate tutte le critiche indie-snob piovute addosso quando il disco e' uscito.