R Recensione

8/10

Epitaph

Outside the Law

Chiacchierando di musica, dici: Germania, metà anni Settanta, e subito la tua mente si popola di nomi di band e di artisti che hanno fatto da spina dorsale al multiforme fenomeno del krautrock, da termine irridente e riduttivo passato ad indicare un enorme metagenere musicale, le cui influenze continuano ancor oggi a irradiare la propria energia ispiratrice su di una nutrita schiera di giovani musicisti. Kraftwerk, Amon Düül II, Popol Vuh, Can, Klaus Schulze, sono alcuni dei nomi che, in una prospettiva storica, risultano occupare il posto di primo piano tra quanti animarono la scena musicale tedesca nel periodo suddetto.

Molto più in disparte rispetto ai sopraccitati, e senza potersi in alcun modo fregiare del titolo di inziatrici di alcunché, né di portatrici di qualsivoglia innovazione nella storia del rock, furono attive in questo Paese europeo alcune band che accolsero a piene mani suggestioni dai più noti gruppi del momento: Led Zeppelin, Black Sabbath, Deep Purple, Uriah Heep, già con i rispettivi album d’esordio impostisi di diritto come principali esponenti dell’hard rock e dell’allora nascente heavy metal. Queste band germaniche erano accomunate dalla scelta di rendere più verosimile e diretta la propria discendenza (o dipendenza, o derivazione, come più vi piace) dal rock angloamericano mediante l’inserimento nella propria line-up di vocalist di nazionalità inglese o statunitense, e rispondevano ai nomi, per esempio, di Blackwater Park, o di Twenty Sixty Six And Then, oppure di Lucifer’s Friend.

Nel caso del combo, originario di Dortmund, degli Epitaph, il vocalist e chitarrista inglese della band, Cliff Jackson, ne fu addirittura il fondatore, assieme al connazionale batterista James McGillivray. Dell’ensemble facevano inoltre parte gli autoctoni Bernd Kolbe (basso) e il secondo chitarrista Klaus Walz, che entrò nella line-up mentre già erano in corso le session per la registrazione dell’eponimo album di debutto, realizzato nel 1971. Dopo circa un anno, McGillivray decise di abbandonare il progetto. Alla batteria subentrò quindi Achim Wielert, artefice primario della virata stilistica della band verso un taglio più risolutamente hard-rock. Dopo un secondo full length e un paio di singoli, la band anglotedesca fu bruscamente scaricata dalla propria casa discografica Polydor. I membri del gruppo non si persero però d’animo, e anzi da questa spiacevole involuzione sembrarono trarre forza e motivazioni per volare negli Stati Uniti, dove una giovane label indipendente, la Billingsgate Records, aveva manifestato vivo interesse per il lancio in grande stile degli Epitaph.

Primo risultato del contratto sottoscritto con la Billingsgate fu il nuovo full length intitolato Outside the Law: sette brani caratterizzati da un appeal reso accattivante da levigati mid-tempo, doppie linee armoniche di chitarra elettrica e ritmiche hard-rock che prendevano il posto delle confuse e annacquate incursioni nel progressive tentate nei lavori precedenti.

Il materiale contenuto nel disco, questa volta, sembrava possedere tutti i requisiti necessari per attirare l’attenzione di un pubblico più vasto. Anche il lussureggiante stile “goth-liberty” dell’artwork era stato studiato forse apposta per sottolineare il valore intrinseco dell’opera, che, negli iniziali intendimenti della casa discografica, avrebbe dovuto essere distribuita su scala internazionale. In realtà, come poi vedremo, gli eventi dovevano imboccare un crinale di tutt’altra inclinazione.

L’album fu registrato negli Omega Studios di Chicago, con una scrupolosa attenzione al missaggio. È sufficiente ascoltare il primo brano, Reflexion, per rendersene conto: un southern rock saltellante, introdotto dai veloci accordi della chitarra elettrica di Jackson. Il brano va a spegnersi con gli strumenti che abbandonano il campo uno ad uno, lasciando in solitudine degli esili e sparuti svolazzi di chitarra elettrica.

Woman inizia con un veloce ticchettio di percussioni e con gli accordi circolari della chitarra di Jackson. Dopo pochi secondi parte l’imperioso drumming di Wielert a cui tiene testa il basso roboante di Kolbe, mentre le due chitarre si inseguono duettando e duellando per tutto il brano.

Big City è il pezzo in cui gli Epitaph sembrano cedere maggiormente a certe nostalgie progressive, caratterizzato da frequenti cambi di tempo e melodia, con un momento clou a circa 3:30, quando l’improvviso rallentamento segna l’ingresso di un bridge pianistico che si propaga nell’ambiente e sembra provenire da un canale supplementare dello stereo. Impressionante.

In tutta questa urgenza di dar sfogo alla maschia possanza della batteria e delle percussioni che pestano e rullano a mille e alle furiose circonvoluzioni solistiche delle chitarre elettriche, c’è anche spazio per una soave ballad romantica, In Your Eyes, costruita su un fraseggio di pianoforte e tenui accordi di chitarra elettrica. Il brano è probabilmente ispirato a certi stilemi tratti da The Allmand Brothers Band, sfregiato però da un chorus clamorosamente “out of tune”.

Tequila Shuffle è il brano che compendia tutti gli aspetti più caratterizzanti dello stile musicale degli Epitaph a questo punto della loro poco fortunata carriera: partenza bruciante con un riff abrasivo fatto di brevi e nervose pennate di chitarra elettrica, che anticipano di una quindicina d’anni analoghe soluzioni degli AC/DC di The Razors Edge (1990). A seguire, di lì a una manciata di secondi, un batterismo nevrotico e disperato. Quello che viene meno, ed è questa la critica più ricorrente mossa al lavoro peraltro pregevole della band in questo album, è il tenore del testo, che presenta scadimenti scialbi e finanche patetici (“Yeah! Yeah! Yeah! Yeah! I’m gonna give you my lovin’ ”…). In fin dei conti, però, si potrà obiettare, non è da una band di questo tipo che ci si aspettano i testi con la maggiore intensità e pregnanza di significato possibili.

Nella suite di nove minuti che chiude l’album, Fresh Air, abbiamo un ulteriore saggio della capacità di questa formazione di creare trame armoniche affascinanti con i lavori di cesello delle due chitarre elettriche, nonché atmosfere musicali complessive che si situano nei paraggi di nomi un tantino più blasonati, quali Wishbone Ash e Thin Lizzy.

Doveva essere questo, forse, l’album più ambizioso degli Epitaph. La casa discografica non solo ne promise, come detto, una distribuzione internazionale, ma contribuì all’organizzazione di un tour statunitense per il suo lancio, salvo poi abbandonare a se stessi i quattro della band, nella quale, nel frattempo, era entrato apposta per l’effettuazione del tour l’ex Karthago Robert Lehmann, in sostituzione di Achim Wielert alla batteria. Billingsgate Records aveva infatti dichiarato bancarotta, sopravvenuta probabilmente anche a causa delle spese ingenti sostenute per la realizzazione di questo lavoro degli Epitaph, i quali furono costretti a tornarsene in Germania con mezzi di fortuna. La storia della band è continuata poi fino ai nostri giorni con alterne vicissitudini e diversi rimaneggiamenti della line-up, tuttavia Epitaph non riuscirà mai a far suo quel posto di rilievo nella rock stardom a cui aveva da sempre aspirato.

Outside the Law, nonostante tutto, il suo posticino nella storia del rock se l’è pur sempre guadagnato: risultato certo di una band che sapeva suonare un hard-prog di livello indiscutibilmente elevato, è un ascolto che può ancora oggi regalare emozioni agli appassionati del genere.

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