R Recensione

7/10

The World is a Beautiful Place & I'm no longer afraid to die

Harmlessness

Il midwest emo è l'erede legittimo della nobile tradizione “alt” degli anni '80, perché si fa carico delle medesime paure, perchè esprime i lividi e i complessi delle stesse giovani vite.

Rispetto al progenitore, l'emo contemporaneo perde qualche punto in termini di vitalità e spontaneità, ma recupera in fase di produzione e – spesso – di architettura: oggi tutto risulta studiato meglio, anche perché alle spalle si vede già una storia importante, e i mezzi a disposizione (anche dal punto di vista comunicativo) sono decisamente più efficaci.

L'alt-rock degli anni '80 possedeva un che di pioneristico e di naif (per dirla con Picciotto dei Fugazi, al momento sembrava avere lo stesso impatto sulla storia di una pisciata nel bosco), mentre l'emo contemporaneo è molto più consapevole, ecco.

Ma le anime che all'epoca si sarebbero servite della violenza grezza e toccante di molto alt-rock, oggi farebbero ricorso all'emo più evoluta.

I The World etc. sono una fra le realtà emo più interessanti, e direi a questo punto “consolidate”, capaci di mettere radici nei territori della musica hard che sa piangere (non che siano gli unici peraltro: nel corso dell'ultimo decennio, sarebbe doveroso concedere un ascolto a Brand New, ai sottovalutati Castevet, Empire! Empire!, gli ariosi e bravissimi Brave Little Abacus).

E direi che “Harmlessness” li riscatta dai grigiori untuosi e pretenziosi dell'EP datato 2014. Perché il collettivo ritorna in carreggiata, si mette a fare ciò che gli riesce decisamente meglio: inventarsi melodie ariose a lacerate, interpretarle con la consueta enfasi emo-core dilaniata, e quindi disperderle dentro trame dal sapore progressivo, che guardano al miglior post-rock.

Ecco così 13 brani per oltre 53 minuti di musica, ecco così che i cieli grigi e dolenti dell'emo-core riscoprono un'energia furiosa e un'ispirazione notevole in fase di songwriting.

Le tecniche narrative dei The World tendono al drammatico: molti brani respirano lentamente, con le chitarre pulite e dolenti, prima di accendersi in poderosi cambi di ritmo (e anche di tempo). La voce fa il resto: i bisbigli sonnolenti e autoreferenziali si trasformano in grida (grida però sempre a un passo dal pianto), con la gola scartavetrata a l'emozione che si fa carne e sangue.

Nonostante qualche lungaggine non vedo grossi cedimenti: i due momenti autenticamente progressivi (le conclusive “I Can Be Afraid of Everything” e “Mount Hum”) mostrano una varietà stilistica e di mood che le rende apprezzabili. La prima respira anche attraverso stop-and-go e complessi cambi di tempo di ispirazione math rock, tanto che si può parlare di quattro brani fusi l'uno con l'altro, in una sorta di suite. L'alternanza delle voci (due maschili e una femminile) contribuisce a scacciare lo spettro della monotonia, evocando in alcuni momenti gli spigolosi cambi di direzione di band come i Circle Takes The Square.

Il pezzo conclusivo funge un po' da momento di raccordo per tutte le anime della band: gli arpeggi intrecciati delle chitarre si infiammano in una ballata dai toni nostalgici e impettiti. La voce, sempre a un passo dal pianto, profuma di teen spirit; dopo continui, caotici cambi di mood, il finale virato in direzione corale (ma si tratta di una coralità sconnessa, contorta, quasi più di un dialogo che di vera armonizzazione di voci) è fra i momenti più toccanti.

Mi preme citare almeno altri tre brani.

You Can't Live There Forever” mette in mostra la dimensione più riflessiva e intima della band (“You're harmless in your mind”). Le chitarre sono un vortice che si contorce su sé stesso, ma senza foga, questa volta. Il violino, il sintetizzatore e la dolce voce femminile portano il brano verso il climax, sfruttando le abilità della band in fase di “accelerazione”, la sua capacità di aumentare il battito senza perdere il filo.

Il dialogo fitto – voce maschile e femminile - di “January 10th, 2014” mostra ancora una volta una discreta attitudine post rock, con il violino in odore di Dirty Three, le chitarre che questa volta suonano veri riffs – anche se sporchi, e il consueto crescendo di tono che rende il brano avvincente.

Mental Health” mostra invece cosa può diventare la canzone d'autore nelle mani del collettivo dal nome ipertrofico: trattasi dell'ennesimo pezzo arrangiato in modo obliquo e barocco, dell'ennesima melodia ferita che può attaccarti al muro, se arriva al momento giusto.

In conclusione, direi che i ragazzacci sofferenti del mid-west sono promossi a pieni voti.

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