Ac-Dc
Black Ice
“Dicono che suonino lo stesso pezzo da 30 anni… però è un grande pezzo!” firmato Eddie Van Halen (o cosi si presume).
Esistono religioni che restano immutate nei secoli, continuando a contare su intere comunità di fedeli. Nessuno scandalo se i fratelli Young, superata la loro quinta decade, non si sono cimentati in generi musicali diversi dall’hard rock.
A pochi giorni dall’uscita, Black Ice si è piazzato in testa alle classifiche di 29 paesi (compresa l’Italia), incoraggiando qualche entusiasta a parlare fin da subito di 10 milioni di copie vendute entro la fine del 2008, quindi in soli tre mesi.
Gli Iron Maiden pubblicano dischi discutibili in continuazione, i Metallica danno alla luce lavori accompagnati da valanghe di polemiche con frequenza media. Gli AC-DC hanno invece deciso di dedicarsi alla prima parte del loro nome; Alterneting Current (si dice aicidìsi, non aicidisì, anche se il primo nome vi potrà sembrare un manga da pischelle). Se tra il ’90 e il 2000 escono tre dischi a distanza di cinque anni, Black Ice arriva dopo otto anni di silenzio. L’effetto commerciale non è da biasimare, non tanto per le vendite quanto i tempi record con cui si esauriscono i biglietti in quasi tutte le parti del mondo (si parla di pochi minuti per incassare tre sold out anche in territorio italico).
Per promuovere il disco c’è chi ha potuto godere anche del Colosseo illuminato dall’enorme logo rosso dei fratelli Young ed è innegabile che le copertine di 4 colori diversi (solo quella blu contiene contenuti bonus) non abbiano molto di artistico. Siamo comunque lontani anni luce dai preservativi dei Manowar e lo spazzolino musicale dei Kiss.
Come si può ben immaginare siamo davanti a un disco per molti versi ripetitivo ma certamente fresco, anche se non mancano elementi di novità. L’importante è ricordarsi che l’hard rock è hard rock, e che gli AC-DC sono gli AC-DC; a buon intenditore poche parole.
Gli scolaretti hanno voglia di suonare, di questo non c’è modo da dubitare e non è poco.
In alcuni casi, come nel singolo Rock’N’Roll train, la faccenda si fa fin troppo prolungata ed è indubbio che alcuni riempitivi potevano essere evitati. In fondo non è consigliabile a nessuno registrare l’album di inediti più lungo della carriera tra i 50 e i 60 anni – sono 15 canzoni per 55 minuti.
Come in Stiff Upper Lif (2000) la vicinanza al blues si fa sentire più che nel passato, ma il contributo essenziale, che dà quel tocco di novità di cui parlavo sopra, è Brendan O’Brien (se non lo conoscete ripassate un po’ di storia) come nuovo produttore. È lui a consigliare l’uso dello slide a Angus in Stormy may day, che è la canzone più vicina al suono di Chuck Berry, cui tanto devono i due di Birmingham. È innegabile che lo stesso O’Brien abbia messo mano a Anything Goes, forse il pezzo più importante e più nuovo di questo disco. Brano aggiunto all’ultimo momento strizza l’occhio a Bruce Springsteen, con melodie decisamente poco consuete, definite da qualcuno pop fuse.
Per chi ama il basso c’è una buona War Machine da apprezzare, come Money Made potrà togliere qualche soddisfazione ai batteristi.
Destinata a rimanere nei cuori dei fan anche la tirata di Decibel.
Un commento trovato sulla rete centra il tiro. Non sconvolge ma piace. Chi non vorrebbe dei nonni così energici e capaci?
Non so quanti di voi abbiano avuto modo di apprezzare la trilogia delle fondazioni di Asimov. Dopo esservene innamorati scoprirete che ne è stato scritto un preludio e un seguito, sotto la spinta di motivazioni economiche. Lontani anni luce da opere prime e capolavori sono comunque appendici immancabili e fantastiche per chi si appassiona a ciò da cui traggono origine.
Se non gli amate passate oltre altrimenti gettatevi sul ghiaccio sporco senza troppe remore.
Cos’altro dire?
If you want hard rock, you’ve got it
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