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R Recensione

6/10

Bad Religion

True North

Il dibattito rimane aperto. Tema: ha ancora senso ascoltare un disco dei Bad Religion nel 2013? Vale la pena recensirlo? Ma non avete proprio niente di meglio di fare? Tutte ottime domande, molto precise e circostanziate, alle quali si può rispondere, però, soltanto in modo vago e soggettivo. Cosa che mi proverò a fare con questa recensione (il che è già, implicitamente, una mezza risposta alla seconda domanda). Vero è che il gruppo cali-punk per antonomasia assomiglia ormai ad un’ istituzione dedita a preservare e a tramandare ai posteri l’eredità migliore di un genere musicale che rischia di essere distorto e travisato per sempre dalla caciara giovanil-mtviana-emo-ossigenata degli ultimi quindici, vent’anni, più che ad un progetto artistico che si rinnova, si adatta e si nutre del suo tempo. Come pure è vero, corollario della prima verità, che sarebbe del tutto fuori luogo aspettarsi qualcosa di nuovo e spiazzante da una band che in quasi 35 anni di attività ha cambiato pochissimo, fedele all’ortodossia di un sound aggressivo e melodico - praticamente una vecchia ricetta da manuale di sopravvivenza hardcore - fatto di staccati e controtempi basici e fulminei, chitarre che si lanciano all’arma bianca con una ferocia insieme agra ed allegra, che punge nelle spartane ma ficcanti variazioni delle melodie solitamente corali scomposte in non più di tre tonalità.

Apparentemente, dunque, sembrerebbe non esserci alcun motivo d’interesse e forse neanche di curiosità intorno ad un nuovo ipotetico album della band californiana, il sedicesimo della loro carriera, ipoteticamente intitolato “True North”. Qualcuno potrebbe benissimo spingersi a dire che non ascoltare i Bad Religion a quattordici anni significa non avere cuore, viceversa ascoltarli a trenta suonati significa non avere testa. Che ci può anche stare, ma sarebbe ingeneroso e soprattutto ingrato nei loro confronti. Gratitudine - questa potrebbe essere una buona risposta alla prima domanda - gratitudine e nostalgia. Molto vaga e soggettiva, come risposta, ma di questo rischio eravate già stati avvisati per tempo. Si, perché i Bad Religion, come e più di altri gruppi ormai finiti nel dimenticatoio dei più bassi e scomodi cassetti della memoria, mi ricordano la mia prima adolescenza, i miei quattordici-quindici anni, i miei ingenui ma genuini entusiasmi, le mie tragicomiche gesta di ribellione, le feste, i primi centri sociali, le occupazioni, fare “sega” a scuola con la scusa di una qualche finta manifestazione di solidarietà ai compagni in Chiapas o a questo o a quello e finire a casa di qualcuno ad ascoltare musica e a fare tante altre cose “istruttive” che a scuola non avresti mai imparato.

Su un piano logico non regge come argomentazione, lo so, ma siccome a volte le sensazioni (e le emozioni) contano più dei fatti, ho pensato che questa esperienza poteva essere un terreno esistenziale comune a molti lettori e appassionati di musica che, come me, hanno conosciuto i Bad Religion a metà degli anni 90, quando toccarono forse l’apice del loro successo, nonostante fossero dei “vecchietti” che si erano già sciolti e riformati un paio di volte, grazie al tributo resogli da una generazione di discussi e discutibili “eroi” neo-punk come Green Day, Offspring, Rancid et similia. Che poi andando avanti scoprivi invece che i Bad Religion si erano formati all’inizio degli anni ottanta e che facevano parte della seconda storica ondata di gruppi hardcore con compagni di viaggio illustri e talora magnifici come Misfits, Social Distortions, Gun Club, Bad Brains, solo per citarne alcuni. Di quella covata, i ragazzini capitanati dal cantante Greg Graffin e dal chitarrista Brett Gurewitz (futuro fondatore della Epitaph, l’etichetta con cui incidono ancora oggi) certo non erano gli esponenti più dotati né tantomeno i più originali, come direbbe Scaruffi, ma sicuramente i più tenaci e radicati nella comunità punk americana (e internazionale poi), i principali divulgatori di quello che allora si chiamava hardcore melodico, e la lunghissima carriera che ci ha portati qui oggi a scrivere questa lunga e noiosa recensione (il contrario delle loro canzoni) l’avrebbe ampiamente dimostrato.

E così, eccoci finalmente. A “True North” e a questa recensione che forse non ha ragione d’essere o forse si, dipende da come la si vuole leggere, sempre che lo si voglia fare. Premetto che non li ascoltavo, se non a spizzichi e morsi, da più di un decennio. Come li ho trovati? Bene, direi. Per nulla invecchiati. Anche perché, a dirla tutta, tanto giovani non erano mai sembrati. Non ci tenevano ad esserlo. Niente look street fashion bizzarri o ricercati nella loro trasandatezza, pochi tatuaggi, pochi capelli in testa, zero smanie da sex symbol. E non lo erano soprattutto nei testi, molto più maturi e riflessivi della maggior parte dei gruppi che li circondavano, scritti con brillante concisione, ricchi di ironia e di un vocabolario forbito soprattutto in ambito tecnologico e scientifico (Graffin, autore della maggior parte delle canzoni, ha un dottorato in scienze naturali e paleontologia ed ha tenuto corsi universitari alla UCLA): piccoli apologhi dal sapore aforistico e filosofico, semplici e memorabili nella loro istantanea chiarezza. Non per nulla con uno dei loro brani più celebri di sempre, “21st Century (Digital Boy)”, profetizzarono il futuro tutto mediatico e virtuale, fatto di avatar e social network, in cui siamo immersi. Dunque, riprendendo il filo del discorso, non sono cambiati molto, quasi per niente. E questo, va detto, c’era da aspettarselo. E non solo perché nell’attuale formazione vi sono ben tre membri originali (Graffin, Gurewitz e il bassista Jay Bentley, matricole nel 1979, ultra-quarantenni ora) ma proprio per una questione musicale. Non c’è nulla che sia fuori posto. “True North” è come fare un tuffo nel passato, nei dischi pubblicati nella prima metà degli anni 90. Si, certo, la produzione di Joe Barresi (Melvins, Kyuss, QOTSA) e il massimo storico di ben sei musicisti (di cui ben tre chitarre) conferiscono all’immarcescibile sound del gruppo un volume più robusto e potente (evidente nel rifferama di brani come “Dharma And The Bomb” e “Robin Hood In Reverse”), ma per il resto siamo sempre lì. Ai loro standard più rappresentativi ed anthemici (esemplari: “Robin Hood In Reverse” e “Land Of Endless Greed”) ai mordi e fuggi graffianti e cantabili di un minuto e quaranta circa (al meglio delle loro possibilità con “My Head Is Full Of Ghots” e “The Island”), ai cori beach-punk ben livellati ed armonizzati (“In Their Heart Is Right”), al pungente microassolo in twang di “Past Is Dead”, a sfumature che sottendono un rock leggermente più classico anche se sempre sfrondato e in miniatura (“Dept. Of False Hope”, “Changing Tide”).

E per rispondere alla terza domanda: no, anche volendo, non credo che avrei avuto niente di meglio da fare in quei 36 minuti (tanto dura il disco) e, tutto sommato, mi sono pure divertito. Sarà pure infantile, ma che vi aspettavate? We are the Bad Religion Preservation Society

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ricco96 (ha votato 8 questo disco) alle 10:43 del 28 marzo 2013 ha scritto:

Davvero un ottimo disco da questa band immensa che non delude mai. Ascoltatelo (se proprio non volete acquistarlo, si trova in streaming gratuito sul sito, in tipico stile BR), non ve ne pentirete