Black Heart Procession
The Spell
In “Nightmare Before Christmas”, l’ormai celebre Jack Skeletron prova, con risultati più che scarsi, a vestire i panni di Babbo Nachele, a essere altro da sé, salvo poi rendersi conto di come la bellezza di cui andava in cerca risiedesse naturalmente nel suo cuore di mostro. Con percorso analogo e con analoghe atmosfere, Tobias Nathaniel e Pall Jenkins si lasciano alle spalle il mezzo passo falso di “Amore del Tropico” per tornare al suono scheletrico ed accuratissimo delle origini, quello gelido di sussurri e fantasmi, quello all’insegna della tristezza.
“The spell” è il quinto capitolo della decennale carriera del duo targato Black Heart Procession, rinforzato dal fido Joe Plummer alla batteria, dal violino di Matt Resovich e, per l’occasione, da Jimmy LaValle, già con Tristeza e leader dell’interessante progetto The Album Leaf. Tanto vale dirlo subito: “2”, com’era prevedibile, rimane insuperato, e questa proposta dei californiani in realtà aggiunge molto poco al trittico delle meraviglie con cui strapparono gli elogi di mezzo mondo.
L’apertura, affidata a “Tangled”, mostra da subito l’unica ma rilevante novità che ritroveremo anche in “The Replacement” e “The Fix”: chitarra e violino paiono abbandonare le solite sonorità di contorno per porsi in primo piano. La fusione dei due strumenti crea un effetto di “salita” che ricorda vagamente la fase “pre-esplosione” di tanto post rock: si passa poi per la title track (anch’essa molto chitarristica), che segna probabilmente uno dei momenti più alti. Per il resto c’è tutto: la ninnananna dall’incedere terzinato (“The letter”, dove il violino torna ad essere quello malinconico da sgangherata orchestrina di paese e il quinto episodio dell’immancabile “The Waiter”), la ballata rubata al fratello maggiore Nick Cave (“Places”), e quei brani che, pur non mettendo in luce idee nuove, ammaliano con gli arrangiamenti curati nei più piccoli dettagli. Sempre i Black Heart Procession giocano da maestri con quelli che a livello sonoro costituiscono i loro marchi di fabbrica:la costruzione di tappeti evocativi di spazi oscuri e sacri, ora con suoni analogici ora con l’organo; le evoluzioni pianistiche rigorosamente “in minore” di Tobias; l’effetto “in lontananza” della voce, come se, per giungere a rendersi udibile, dovesse attraversare un vuoto incolmabile di sconforto.
Le liriche di Jenkins, a giudizio di chi scrive uno dei più profondi songwriters in circolazione, riprendono le solite tematiche amorose. “The spell” è un concept sull’amore visto sotto la lente deformante ed alienante del tempo, un tempo sfasato fatto di orologi che perdono il conto, previsioni che logorano l’attesa, e amori che, nel ricordo, assumono la forma distorta di magici incantesimi.
Come Jack Skeletron, i Black Heart Procession sono tornati a fare ciò che sanno fare meglio di ogni altra cosa: canzoni raffinate, tristi, bellissime.
La recensione è apparsa per la prima volta nella webzine sensorium (www.sensorium.it)
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