Death in June
Peaceful Snow
La storia è scritta dall'omicidio.
Così ci ricorda il sempiterno Douglas P., cantatore "dark" per eccellenza, e da decenni - pur con qualche inevitabile scivolone - infaticabile creatore di musica "oscura" particolarmente densa e ricca di fascino.
Qualche scivolone, abbiamo detto. Ed allora precisiamo subito: questo "Peaceful Snow" non rientra nel novero dei lavori riusciti a metà.
Perchè Douglas P. decide di ritornare sui territori lui più congeniali, si traveste nuovamente da Leonard Cohen (ma un Cohen catapultato all'inferno) come ai tempi di "But, What Ends When the Symbols Shatter?" (per chi scrive l'ultimo autentico capolavoro dell'autore); ed aggiunge peraltro un pianista di grande valore e di fascino esoterico come lo slovacco Miro Snejdr, autore di buona parte dei pezzi (scompare invero la chitarra, sostituita proprio dal suo pianoforte) e capace di conferire al disco un'austerità classica, quasi da musica da camera (memorabili sono diversi fraseggi, minimali ma ricchi di sapore).
Alla complessiva riuscita del lavoro, in ogni caso, contribuiscono al solito anche le liriche di Douglas P., si certo fra i più grandi poeti "maledetti" del rock; poeta sprofondato in girone infernale senza via d'uscita, autore di testi fra i più disperati e neri di sempre, ricchi di un fascino macabro che deve annoverarsi fra le cose più interessanti mai uscite dall'universo rock.
Ecco, questo disco conferma che Douglas P. è ancora scrittore creativo, nonostante i capelli siano imbiancati e la pancia nasconda i piedi alla vista; non che ci si allontani, in ogni caso, dai territori a lui più congeniali: "Murder Made History", "The Scents of genocide" e ""A Nausea" dicono tutto sin dal titolo, e sono emblemi del suo decadentismo senza spiragli di luce, del suo pessimismo che potremmo definire leopardianamente "storico"; perchè la musica e le liriche di Douglas P. sono sempre intrise di una nostalgia devastante, che non prevede luce nè redenzione. Nostalgia per qualcosa che è andato perso (forse la dignità e l'integrità del genere umano), e che non tornerà mai più.
Sotto questo pofilo, Douglas P. è peraltro esempio di stoicismo che non teme confronti: la sua carriera si snoda fra punk anarcoide, folk apocalittico (filone che di fatto l'autore ha creato quasi da solo, prendendo spunto dagli ultimi vagiti dark-wave, dalle sperimentazioni industriali, dall'amore per l'esoterismo), ambigui rimandi nazistoidi (in realtà, più dichiarati che reali: l'antico gusto della provocazione), musica industriale vera e propria, e non perde mai il filo. Douglas P. è integerrimo fino al parossismo, e non concede mai nulla al pubblico (se non al suo pubblico), alle mode, all'ultima tendenza: prosegue sempre per la sua strada, in una ricerca che, dopo oltre tre decenni, pare lontana dal concludersi.
E questo disco, cari lettori, nè è l'ennesima conferma: sorvolando su qualche passaggio non propriamente memorabile, o su qualche mera rilettura di pezzi del passato (la pur discreta title track è quasi una cover di "Flies Have Their House"), il disco presenta un'atmosfera di grande fascino gotico, destinata a colpire chiunque sguazzi con piacere sul lato oscuro della musica.
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