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R Recensione

7/10

Death in June

Peaceful Snow

La storia è scritta dall'omicidio.

Così ci ricorda il sempiterno Douglas P., cantatore "dark" per eccellenza, e da decenni - pur con qualche inevitabile scivolone - infaticabile creatore di musica "oscura" particolarmente densa e ricca di fascino.

Qualche scivolone, abbiamo detto. Ed allora precisiamo subito: questo "Peaceful Snow" non rientra nel novero dei lavori riusciti a metà.

Perchè Douglas P. decide di ritornare sui territori lui più congeniali, si traveste nuovamente da Leonard Cohen (ma un Cohen catapultato all'inferno) come ai tempi di "But, What Ends When the Symbols Shatter?" (per chi scrive l'ultimo autentico capolavoro dell'autore); ed aggiunge peraltro un pianista di grande valore e di fascino esoterico come lo slovacco Miro Snejdr, autore di buona parte dei pezzi (scompare invero la chitarra, sostituita proprio dal suo pianoforte) e capace di conferire al disco un'austerità classica, quasi da musica da camera (memorabili sono diversi fraseggi, minimali ma ricchi di sapore).

Alla complessiva riuscita del lavoro, in ogni caso, contribuiscono al solito anche le liriche di Douglas P., si certo fra i più grandi poeti "maledetti" del rock; poeta sprofondato in girone infernale senza via d'uscita, autore di testi fra i più disperati e neri di sempre, ricchi di un fascino macabro che deve annoverarsi fra le cose più interessanti mai uscite dall'universo rock.

Ecco, questo disco conferma che Douglas P. è ancora scrittore creativo, nonostante i capelli siano imbiancati e la pancia nasconda i piedi alla vista; non che ci si allontani, in ogni caso, dai territori a lui più congeniali: "Murder Made History", "The Scents of genocide" e ""A Nausea" dicono tutto sin dal titolo, e sono emblemi del suo decadentismo senza spiragli di luce, del suo pessimismo che potremmo definire leopardianamente "storico"; perchè la musica e le liriche di Douglas P. sono sempre intrise di una nostalgia devastante, che non prevede luce nè redenzione. Nostalgia per qualcosa che è andato perso (forse la dignità e l'integrità del genere umano), e che non tornerà mai più.

Sotto questo pofilo, Douglas P. è peraltro esempio di stoicismo che non teme confronti: la sua carriera si snoda fra punk anarcoide, folk apocalittico (filone che di fatto l'autore ha creato quasi da solo, prendendo spunto dagli ultimi vagiti dark-wave, dalle sperimentazioni industriali, dall'amore per l'esoterismo), ambigui rimandi nazistoidi (in realtà, più dichiarati che reali: l'antico gusto della provocazione), musica industriale vera e propria, e non perde mai il filo. Douglas P. è integerrimo fino al parossismo, e non concede mai nulla al pubblico (se non al suo pubblico), alle mode, all'ultima tendenza: prosegue sempre per la sua strada, in una ricerca che, dopo oltre tre decenni, pare lontana dal concludersi.

E questo disco, cari lettori, nè è l'ennesima conferma: sorvolando su qualche passaggio non propriamente memorabile, o su qualche mera rilettura di pezzi del passato (la pur discreta title track è quasi una cover di "Flies Have Their House"), il disco presenta un'atmosfera di grande fascino gotico, destinata a colpire chiunque sguazzi con piacere sul lato oscuro della musica.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.
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Morris 7/10
trafillo 10/10

C Commenti

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tarantula alle 9:11 del 4 dicembre 2010 ha scritto:

Sia chiaro: con i Death in June, Sol Invictus, Current 93 e compagnia bella, ci sono cresciuto. Tuttavia, non posso esimermi dall'esprimere un giudizio negativo su quest'album. Nella sua carriera, Douglas P. ha alternato il "folk apocalittico" che l'ha reso celebre con lavori più sperimentali in cui sfogava il suo lato industriale. Quest'ultimo è una stanca ripetizione della sua faccia più canonica, quella folk, con il pianoforte che sotituisce la chitarra per creare una sorta di effetto novità...e, fino a qui, niente di male! Ma le melodie sono ben lontane dall'essere memorabili e non affondano il coltello nel cuore a creare un vortice di dolore e commozione come in passato. A mio giudizio, semplicemnete un paso falso: qui manca l'ispirazione!

Emiliano alle 19:58 del 4 dicembre 2010 ha scritto:

ma "Rose clouds of holocaust" non era anche su un altro?

tarantula alle 21:21 del 5 dicembre 2010 ha scritto:

Sì, credo che la tracklist sia errata.

REBBY alle 8:33 del 28 dicembre 2010 ha scritto:

Non c'è dubbio che sia errata la tracklist (al momento ci azzeccano solo la 1/2/6/7/10/11). Per quanto riguarda il disco: "atmosfera di grande fascino gotico" OK, ma le canzoni sembran quasi tutte la stessa. A me pare davvero troppo ripetitivo.

Morris (ha votato 7 questo disco) alle 1:36 del 16 marzo 2011 ha scritto:

Premetto che ho tutti i disci dei DIJ che sono uno dei miei gruppi preferiti di sempre. Tracklist a parte, sono pienamente d'accordo con la recensione. Non sono d'accordo sulla critica concernente la "ripetitività" dell'album perchè mi pare una critica fuori luogo per un disco che è volutamente minimale e che trae proprio da questo il suo grande fascino.

REBBY alle 9:08 del 16 marzo 2011 ha scritto:

Mah, fuori luogo no, è qui che ognuno dice cosa pensa del disco eheh. Io non nego che buona parte dei brani siano singolarmente affascinanti, è l'ascolto filato dell'album che genera in me monotonia, proprio per l'eccessiva somiglianza delle canzoni (voluta o meno che sia la cosa). E tantomeno nego l'importanza di questo musicista e inoltre rispetto la tua passione per lui. Tra l'altro io ho già manifestato su queste pagine la mia ammirazione per uno dei suoi "eredi". Ecco io trovo uno qualsiasi degli album dei Rome migliore (più vario, più godibile) di questo, ma chiaro che questa è solo la mia opinione.