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7/10

Nina Nastasia

Outlaster

Nina Nastasia ha uno sguardo antico, e i tratti espressivi del suo viso sembrano pensati da un autore hard-boiled degli anni ’40. Ha una figura esile, capelli corvini e nervosi, e anche in quelle poche foto a colori che circolano te la immagini in un vecchio noir di Jacques Tourneur, immersa in un fumoso e spettrale bianco & nero. Insomma, una presenza magnetica, d’altri tempi. La voce della Nastasia è quanto di più classicamente “americano” e lirico possa vantare l’odierna scena folk statunitense. Non ha un timbro particolarmente originale, ma è un riparo sicuro nelle lunghe notti di pioggia e solitudine.

“Outlaster” è il sesto album della cantautrice californiana, prodotto sempre dal guru Steve Albini, con il fido Jay Bellerose alla batteria (già collaboratore di T-Bone Burnett), Jeff Parker (Tortoise) alla chitarra e le orchestrazioni di Kennan Gudjonsson, nella vita compagno di Nina. Autrice di lavori pregevoli realizzati nell’arco di 11 anni, “Outlaster” conferma Nina Nastasia un’interprete sensibile e di talento, avulsa dalle regole del “facile ascolto” radiofonico.

Il folk-rurale della Nastasia evoca scenari e situazioni che troveresti familiari dentro Steinbeck: la povertà e la volontà degli onesti durante la Grande Depressione, un invito gentile ma deciso a resistere, a non rassegnarsi, a saper aspettare l’alba di un giorno nuovo dopo il tramonto del Sogno Americano. “Outlaster”, che ben inizia con il folk melodico di “Cry, Cry, Baby”, la brevità incisiva di “Moves Away” (Lisa Germano in un vaudeville onirico), la teatrale e barocca “You’re A Holy Man” e il sentimentalismo perduto di “You Can Take Your Time”, vira poi in arrangiamenti drammatici e orchestrali, curati alla sezione fiati e archi dal polistrumentista Paul Bryan.

Ecco, allora, il tango crepuscolare di “This Familiar Way”, la tristezza che sbiadisce in cupi ricordi (“What’s Out There”) e il meditabondo distacco della traccia omonima (Alela Diane che canta i Black Heart Procession). Gli occhi di Nina Nastasia non sanno, non possono mentire. Sono compassionevoli e fieri, come l’evanescente mondo di cui racconta e non c’è più, come la semplice e immaginaria copertina che la ritrae in stile b-movie cinematografico. Come il disincanto fuorilegge, e per questo oggi tanto prezioso, di “Wakes”.

 

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.
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Teo 7/10
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C Commenti

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target (ha votato 7 questo disco) alle 16:05 del 10 agosto 2010 ha scritto:

America sacrale ed eterna (come quella di Tiny Vipers, che però è più scarna e sciamanica). Ci si ferma, si ascolta, si riparte. Bella analisi, molto evocativa.