Shearwater
The Golden Archipelago
In un’ipotetica connotazione politica delle band variamente etichettabili come ‘indie rock’, gli Shearwater sarebbero senz’altro tra le fila dei verdi (esistono ancora?). Dopo una prima parte di carriera trascorsa come side-project degli Okkervil River divagante attorno a temi ornitologici, la band di Austin chiude con questo “The Golden Archipelago” una trilogia di dischi (“Palo Santo”, 2006 e “Rook”, 2008 gli altri) dedicata all’influenza dell’uomo sulla natura e alla minacciata meraviglia del geo-sistema. E fanno sul serio, stavolta: assieme al disco è possibile acquistare, a cifre che in Europa superano i 40 euro, un dossier di 75 pagine (“The Golden Dossier”) che raccoglie immagini e testimonianze accumulate dal leader Jonathan Meiburg durante i suoi viaggi nelle isole più sperdute del mondo. La componente intellettuale a sfondo ecologista degli Shearwater non è mai stata così marcata.
Lontanissimi dal rock urbano-metropolitano, ormai distanti anche dalle tinte folk da cui erano partiti, immersi in una sorta di straniante art-rock ambientalista, sospeso tra reminiscenze spiritual un po’ Talk Talk e impegno colto un po’ Radiohead, gli Shearwater continuano a rimanere una band appartata, tanto più in un disco che si propone come esplicito concept la vita nelle isole. Anche qui, come nei lavori precedenti, la dimensione naturalistica sembra pervadere, oltre ai testi, l’elemento sonoro, sicché si viaggia sempre in bilico tra suoni limpidi e rumorismi misteriosi, nebbioline noisy e ariose aperture melodiche, pesanti passi di piano e arpeggi gentili, rare sferzate di elettrica e luccichii di glockenspiel, guidati dalla voce bifronte (davvero o-la-si-ama-o-la-si-odia) di Meiburg, a tratti sussurrata a tratti magniloquente. Fonosimbolismo, si direbbe in letteratura. Vera immersione geografica, a inizio disco: ad aprire non è la voce di Meiburg, ma quelle di alcuni esuli dell'atollo di Bikini che intonano il loro inno.
“The Golden Archipelago”, in sostanza, non aggiunge quasi nulla a “Palo Santo” e “Rook” (da cui, nella sostanza, il suo maggiore difetto: la prevedibilità), tranne una maggiore preminenza delle percussioni e una spinta più epica. Se prima, cioè, l’elemento quasi stupefatto del sound Shearwater, volutamente pieno di momenti vuoti, alimentava una componente incorporea molto forte (alcuni pezzi erano, alla “Spirit Of Eden”, pura astrazione), qui si preferisce marcare le tonalità piene, stentoree, solenni, più fisiche. Molti brani, allora, vanno sopra le righe, sia nella rigogliosità degli arrangiamenti, davvero equatoriali per densità e copertura degli spazi (“Black Eyes”, “Hidden Lakes”), sia nell’interpretazione di Meiburg, a tratti troppo ridondante (“Uniforms”, l’enfatica “Corridors”, interessante per l’aria febbrile e il passo un po’ prog). Qualche passaggio lussureggiante funziona, come i cenni post-rock di “Landscape At Speed” (le chitarre che nella seconda parte sembrano voler squarciare lo strato di strumentazione fanno centro), o “Castaways”, roboante e gloriosa ‘high-light’ del disco.
L’impressione, però, è che gli Shearwater funzionino meglio dove toccano corde intimistiche e dove cercano soluzioni più scheletriche e sottovoce, come nell’apertura (“Meridian”) e soprattutto nella chiusura di “Missing Islands”, ballata iper-sensibile ed evocativa che si stende sul piano ipnotizzando. Questi pezzi dovrebbero, nelle intenzioni, restituire il senso di solitudine ed esclusione vissuto dagli isolani, e forse la vibrante “An Insular Life”, coi suoi accordi in minore intarsiati da un basso rotondo e poi dagli archi, è dove questa percezione di estraneità si avverte con più intensità: ascolto a occhi chiusi consigliato (il finale è da 10).
Senza picchi ma con qualche perla nascosta, dunque, “The Golden Archipelago” chiude più che degnamente la trilogia naturalistica degli Shearwater. Ma, facendolo, sembra avvertire come, per il futuro, una virata tematica e stilistica sia necessaria. Vedremo il puffino dove volerà.
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