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R Recensione

7,5/10

Miles Davis & Robert Glasper

Everything's Beautiful

Il film biografico è già un bel rischio: bisogna rendere omaggio al personaggio rappresentato senza scadere nella beatificazione, romanzare la realtà senza allontanarsene, creare un prodotto visivamente gradevole rispettando la narrazione. Al cinema, abbiamo visto racconti biografici immortali (Mohammed Alì, Ray Charles) e robaccia che più che un omaggio sembra un insulto (l'ultimo Pelè), ma quello che ci è capitato ancora più spesso e subire colonne sonore non all'altezza , o addirittura brutte. Perché creare la musica per un film di questo tipo è ancora più rischioso che girare il film stesso: devi essere in grado di sottolineare gli eventi raccontati senza invadere la trama, distinguere il ruolo del protagonista dal resto delle immagini, cucire un vestito sonoro che rimarrà (probabilmente) legato a doppio filo con la figura rappresentata. Quando poi il “biopic” riguarda un musicista il dramma è doppio. E se il musicista in questione è Miles Davis... Va beh dai, ci siamo capiti, il film sarà sicuramente impegnativo (e dobbiamo sperare nelle capacità di Don Cheadle) ma per la colonna sonora siamo in buone mani, ovvero quelle grosse, precise e sicure di Robert Glasper. Che non curerà la colonna sonora di “Miles Ahead” ma figura come unico contributore esterno in una soundtrack composta – ovviamente – da brani di Miles Davis. Fatte le dovute proporzioni (ripetetelo dieci volte) Glasper è l'unico contemporaneo in grado di avvicinarsi a Davis, con il quale condivide la voglia di sperimentare e di usare la propria formazione jazz per arrivare altrove e ovunque. Davis era arrivato al rock quando il rock era al massimo dello splendore, e nell'ultima fase della sua enorme carriera aveva raggiunto l'hip-hop. Per il giovane Robert Glasper l'hip-hop è invece un punto di partenza, e il jazz rimane ispirazione primaria. Il jazz di Robert Glasper non è semplicemente contaminato con la black music e l'hip-hop, ma è una fusione completa di diversi elementi, che partono “in parità” e creano un linguaggio indipendente. E lo diciamo non perchè abbiamo capito tutto (forse non abbiamo capito niente) ma perchè aveva capito tutto Miles Davis, che rifiutava il termine “jazz” in quanto costruito e fittizio, e chiedeva che venisse sostituito con l'espressione “musica sociale”. Ci piace leggere in queste “similitudini” il fatto che “Miles Ahead” esca quasi in contemporanea con il disco-tributo a Miles Davis di Robert Glasper. Anche perchè Robert Glasper non è un modaiolo, e quindi il dubbio che possa trattarsi di “opportunismo” non ci sfiora nemmeno (nonostante Don Cheadle faccia capolino anche in questo “Everything's Beautiful”).

Il pianista omaggia il più grande organizzatore di suoni mai apparso in ambito jazz (anzi, mai apparso e basta), ma non si limita all'agiografia. Negli anni '70, nel tentativo di avvicinarsi al mainstream pop (!), Miles metteva su disco alcune fra le trovate più stralunate e complesse della sua carriera. Riuscendo nell'impresa di scontentare tutti: da un lato i puristi jazz, inorriditi dalla svolta elettrica, dalla caoticità di un musicista celebrato – sino a quel momento – anche per la sua leggibilità; dall'altra i rockers, spaesati davanti a quel marasma di suoni indecifrabile, davanti a quelle suite lunghissime e iper-elaborate.In realtà, come sempre, Miles stava fregando tutti. Il segreto dei lavori pubblicati negli anni '70 si trova nella lunghissima operazione di editing messa in atto dopo le caotiche incisioni: di fatto, con “Bitches Brew” (che è proprio roba buona, come da titolo), “A Tribute to Jack Johnson”, “On The Corner”, “Get Up With It”, così come con i lunghi live registrati in Giappone (“Agharta”, “Pangaea”), Davis proiettava il concetto di rielaborazione del suono nel futuro; lavorando su sé stesso, inventava il campionamento. Con qualche decennio di anticipo sui maghi dell'elettronica, in altri termini, il genio dell'Illinois stava tenendo un corso accelerato di post-produzione. Robert Glasper l'ha intuito e ha compiuto un passo ulteriore: utilizza le idee di Miles Davis come sfondo, quasi si trattasse di disegnare un affresco, un'epitome della sua carriera. Quindi, mette in primo piano le proprie idee, servendosi dell'élite della "blackitudine", come di consueto.La critica parla di acid jazz, o di nu jazz: io direi che ogni definizione si rivela castrante, perché Glasper prosegue più che altro nel suo cammino verso la musica nera totale, al confine fra jazz, soul, r'n'b e hip hop, con tanto di produzione cristallina, luccicante.L'atmosfera notturna, cool, è proprio quella dei lavori di Miles: “Ghetto Walkin'”, con il portentoso Bilal alla voce e con le backvoices gospel, sembra quasi un featuring fra il Davis più rilassato (“In a Silent Way”, dalle cui sessions proviene il tema di “The Ghetto Walk”) e il Principe da poco scomparso (quello di “Adore”, dove peraltro faceva capolino proprio la tromba di Miles).Robert si conferma un superbo assemblatore, un geniale editatore (anche in tal senso, direi “architettonico”, non sono poche le affinità con il sommo): “Mayisha (So Long)” recupera e “coverizza” la suite (durata: 15 minuti) di “Get Up With It”, e valorizza il giro sornione del brano – le note sospese della tromba, il piano Rhodes! - con Erykah Badu e con la sua strana timbrica vocale.“Silence is the Way” è archetipica sin dal titolo: il tema meditativo, fragilissimo di Miles si trasforma in un tappeto in odore di ambient, mentre la cantautrice britannica Laura Mvula (e le consuete coriste gospel) regalano un corpo alla canzone. L'aurea soffusa e quasi impalpabile è l'omaggio più evidente all'idea Davisiana della musica.“I'm Leaving You” è fra i pezzi più originali: Robert recupera un “Wait a minute” pronunciato da Miles durante qualche session, e ci ricava un funk-jazz collettivista, sulla falsariga della famiglia Stone; il finale “sfumato” è la ciliegina sulla torta. E la torta, qui, è un Miles Davis reinterpretato anche laddove viene dichiaratamente "remixato" (si veda la "Milestones" digitalizzata con Georgia Ann Muldrow), omaggiato (il tema di "Mayisha" resuscitato tra le grazie vocali della Badu) e celebrato nell'olimpo dei migliori musicisti black di sempre (c'è l'armonica di Stevie Wonder in "Right On Brotha"). 

Miles ahead, Robert right after.

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