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R Recensione

8/10

Robert Glasper Trio

Mood

In principio era il Texas. Erano i retrobottega, i locali da quattro soldi e le serate spese in mezzo a cowboy che si minacciano con le stecche da biliardo: i classici posti in cui non devi preoccuparti di piacere al pubblico, perché non sei al Blue Note al 131 sulla terza strada. Puoi concentrarti sulla musica, sulle sue dinamiche, e puoi anche permetterti il lusso di sperimentare e di sbagliare, di fare a pugni con i tuoi limiti.

Poi arriva New York e la storia cambia. Il 2003 è l'annus mirabilis della carriera di un Robert Glasper neanche venticinquenne e già in rampa di lancio.

Quello che il sottoscritto considera un nome chiave della scena new jazz (o black wave) dell'ultima decade esordisce proprio nel 2003 con lo stupefacente “Mood”, registrato con un trio versione allargata (alla chitarra, superba in diversi passaggi, e a due sassofoni).

“Mood” mette subito le cose in chiaro: questo è jazz che “piace alla gente” (parole testuali del pianista texano), lontano da ogni forma di intellettualismo e di pretenziosità. Ciononostante, è jazz mostruosamente colto.

Glasper ha studiato a fondo la lezione dei maggiori pianisti contemporanei, e non solo, ma è anche un grande appassionato di musica in genere (chi non ricorda la straordinaria cover di “Smells Like Teen Spirit” di “Black Radio”?).

Ecco quindi “Maiden Voyage”, il pezzo introduttivo che non ha bisogno di spiegazioni se si conosce un minimo la musica jazz: Glasper però non si limita a omaggiare quello che è forse il suo principale maestro (Herbie Hancock, ça va sans dire), ma ci mette subito del suo. Per stessa ammissione del leader, la versione del capolavoro di Hancock registrata su “Mood” si ispira (nell'arrangiamento e nella parte vocale) a “Everything in its right place” dei Radiohead, e rivela subito il cosmopolitismo raffinato di Glasper. Nella musica americana non esistono le barriere che noi ci divertiamo a edificare mattone dopo mattone: di qua il jazz serio, di là l'hip hop che è musicaccia di serie B partorita dagli psicopatici del Bronx o di Compton, di là ancora la muica pop da camera per indie-snob, in fondo a destra le ambizioni colte della musica seria e noiosa, nello scantinato i rockers sudati e ancorati a vecchi stereotipi “maledettisti”.

Come dimostra proprio il filone black wave, con la sua pletora di collaborazioni, featuring e incroci, sono infatti gli ibridi impensabili - che di solito fanno storcere il naso ai puristi – il segreto delle novità. Personalmente, quando sento prlare di commistioni insolite, di “rumore” che rovina la musicalità perduta, di purezza rimpianta, raddrizzo le antenne perché ho sentore di idea interessante.

Veniamo al disco: Glasper ha imparato da Herbie Hancock a costruire lunghi saliscendi di ispirazione modale, a cavare dal piano snorità particolarmente ariose; McCoy Tyner gli ha invece suggerito di giocare con l'armonia e con i suoi spazi, di saltare letteralmente sul pianoforte. Coltrane è invece colui che ha dimostrato al mondo di poter cavare l'impossibile da tre successioni di note, complicando il discorso armonico: Glasper lo segue ma è decisamente meno iperbolico, i suoi sassofonisti (che qui fanno la voce grossa in tre brani, specie nello splendido “L.N.K. Blues”, coltraniano fino al midollo) presentano una versione soft e meno arzigogolata del genio di Trane.

Non è finita: Glasper è cresciuto a pane e black musica, ha lavorato con Mos Def (che Dio benedica per sempre il suo “Black on both sides”), con Erykah Badu e soprattutto con l'amico Bilal. Le basi ritmiche dell'hip hop e dell'r'n'b, magistralmente divaricate in un discorso degno di Tony Williams dal batterista Damion Reid, diventano quindi parte essenziale del discorso, specie nella freschissima “Interlude” - con la batteria che mima e scompone il discorso ritmico dell'hip hop.

Mood” consta di sei brani originali e di un paio di versioni nu jazz di canzoni classiche (“Alone Together” e “Blues Skies”), oltre che della suddetta versione avant di “Maiden Voyage”. Il momento più toccante lo regala forse “Don't Close Your Eyes”, quasi un Brad Mehldau che si mette a collaborare con una voce soul - letteralmente fuori dal coro - come quella di Bilal.

Questo è jazz nuovo e incredibilmente dinamico, abilissimo nel mediare fra le grandi passioni di Glasper. E oggi sappiamo che è solo l'inizio: tanto di cappello.

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