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R Recensione

8/10

Robert Glasper Experiment

Black Radio

Fortuna che la musica afro-americana, nell'ultimo lustro, sta riscoprendo (magari sommessamente, magari non per tutti) i fasti di un tempo.

Un tale Robert Wyatt diceva “grazie” ai neri d'america per avergli cambiato la vita, ed io poco modestamente mi accosto al genio inglese e ribadisco con forza il concetto.

Specie in un'epoca che sembra aver quasi completamente accantonato la forza eversiva del coraggio e dell'originalità, in un'epoca che scambia il virtuosismo con l'onanismo, che si prefigge l'unico obiettivo della visibilità, sia essa quella in grande stile (ma poverissima di idee) del palcoscenico dell'Ariston, o quella più circoscritta di un panorama indie che ha deciso di rimasticare all'infinito le idee partorite dagli anni '80 (o al più dai primissimi anni '90; con le dovute, importanti eccezioni: sia ben chiaro).

Non che tutta la musica nera sia un'isola felice (del resto, basta dare un'occhio ad MTV per rendersene conto), ma ciò non toglie che dobbiamo riconoscerle almeno un merito: si è sforzata di recuperare il concetto di musica come messaggio e come forma di comunicazione “alta”, specie dal 2008 a questa parte, specie da quando i mutui sub-prime ed il corredo di mostri hanno deciso di rovesciarci addosso una valanga di problemi destinati a cambiarci la vita per sempre.

Forse perchè la musica degli afro-americani rispecchia da sempre le contraddizioni della società americana, e quindi, in un modo o nell'altro, di tutto l'occidente: quello di “denuncia” è un concetto che si è affacciato nuovamente sulla ribalta della vita culturale con prepotenza, che ci piaccia o meno; e sono stati gli americani di colore i primi a gridarlo con tutta l'energia possibile.

Ma veniamo al dunque: una volta c'era tale Archie Shepp (c'è ancora, ma gli anni passano per tutti), testolina notevole e sassofono venerabile, che un bel giorno decise di incidere “Attica Blues” e di avvicinarsi paurosamente al concetto di musica nera “totale”.

Oggi sono in tanti a ripercorrerne le orme, magari scegliendo di battere strade del tutto personali: Robert Owens che si mette a giocare con la summer of love della Chicago anni fine anni '80 (soul ed house che spadroneggiano), Matana Robers che si inventa il post-jazz-rock-blues e ti fa a brandelli il cuore, Ambrose Akinmusire che si inchina alla tradizione più nobile del post-bop e poi ti spiazza a colpi di spazzolate di batteria incendiaria. E si potrebbe/dovrebbe citare anche la Badu, Janelle Monàe, e chissà quanta altra gente.

Ma soprattutto, si deve parlare di Robert Glasper, musicista non meno giovane e non meno talentuoso di tutti costoro, nonchè, forse, colui che più di ogni altro si è sobbarcato il compito gravoso di tracciare le coordinate entro cui si muove la musica afro-americana contemporanea.

Ecco allora “Black Radio”, profetico sin dal titolo, un “Attica Blues” (mi si conceda un pizzico di esagerazione) aggiornato all'epoca della musica post-tutto.

La spina dorsale del lavoro è il jazz: così afferma Robert, e d'altra parte non potrebbe essere diversamente, dato che il ragazzone si diverte da tempo con i tasti del suo pianoforte, sposando il suo virtuosismo eccelso (ma non scolastico) con un afflato melodico incantevole e potentissimo. Uno che si è studiato a fondo la lezione di Keith Jarrett (e ci mancherebbe altro: ogni pianista jazz contemporaneo, praticamente, gli deve qualcosa), ma anche la libertà espressiva di McCoy Tyner (si dia un'ascolto a “Sahara”, per comprendere ciò che voglio dire), la dimensione onirica, liquida ed apertissima di Herbie Hancock, e molto altro ancora.

Ma parlare di un disco jazz è quantomai improprio, o comunque riduttivo: perchè Robert innesta sulla colonna portante (che è omaggio al bop così come alle sue correnti più recenti) elementi soul ed hip-hop (quando non reggae), avvalendosi dell'abilità vocale di nomi importanti dell'attuale panorama r'n'b americano.

Il risultato è soprendente, anche perchè di impatto immediato e quasi fisico: dall'introduzione (che nella breve discussione conclusiva omaggia The Bird: sempre lui! Anche 60 anni dopo il debutto è faro per miriadi di musicisti) alle meravigliosa “Afro Blue” (dove canta Erykah Badu, forse la più grande fra tutte le interpreti afro di oggi), percorsa da brividi r'n'b, melliflua e solenne come il soul migliore, inafferrabile come il jazz.

Cherish the Day” “featura” la voce splendida e nerissima di Lalah Hathaway, nome di primo piano della scena soul-jazz di Chicago. La title-track è hip-hop corrosivo ambientato in un solenne movimento jazz (strepitoso Glasper al pianoforte), roba da celebrazione silenziosa ed incondizionata (anche perchè Mos Def è un MC ed un'attore consumato).

Gonna Be Alright” si muove a piccoli passi verso il “levare” del reggae (già il titolo è paradigma della musica jamaicana), colorata dalla voce suadente di Ledisi, altra colonna portante della musica nera contemporanea. “Ah Yeah” è un sinuoso gioco di “call and response”, che affascina a furia di intrecci vocali e saliscendi sinuosi del pianoforte.

Al di là della varietà degli stili, a soprendere è la coerenza di fondo: l'eclettismo si trasforma in sublimazione di ciascuno dei generi evocati, la produzione è cristallina e stellare, quasi futurista. La traccia conclusiva spiazza completamente: è una cover in versione soul/ lounge-jazz di “Smells Like Teen Spirit” tanto improbabile e distante dal capolavoro di Kurt Cobain da risultare riuscitissima.

Nessun dubbio: “Black Radio”, per quanto mi riguarda, è il primo crack dell'anno

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Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 9 voti.
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Cas 8/10
motek 6,5/10
MusicAhUm 8,5/10
bbjmm 5/10
REBBY 6,5/10

C Commenti

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Marco_Biasio alle 11:11 del 3 marzo 2012 ha scritto:

Li ho beccati ieri, al Letterman, che suonavano un brano con Bilal e Lupe Fiasco. L'ho trovato francamente fantastico. Mi sa che gli concederò più di un ascolto. Bella recensione as usual, Francesco.

Cas (ha votato 8 questo disco) alle 10:36 del 9 marzo 2012 ha scritto:

wow, veramente un gran disco: birth of the new-new cool? eheheh complimenti per la proposta france'

Utente non più registrato alle 14:03 del 20 marzo 2012 ha scritto:

L'inizio della recensione dice una grande verità, d'altronde cosa sarebbe la musica senza il blues, il jazz, il soul, il funky???...

simone coacci (ha votato 8 questo disco) alle 20:42 del 23 marzo 2012 ha scritto:

Esemplare commistione di soul-funk anni 70, hip-hop d'autore e jazz d'atmosfera vicina a certe cose di Madlib (ad es. "Madlib Medicine Show 7: High Jazz"). Uno dei migliori dischi (se non il migliore in assoluto)del trimestre: suonato meravigliosamente, perfettamente incastonato in una elastica forma canzone, con un parterre di ospiti vocali di primissimo livello. E la Badu che strappa applausi pure mentre fa la "prova microfono".

simone coacci (ha votato 8 questo disco) alle 18:35 del 4 maggio 2012 ha scritto:

Ma "Smell Like Teen Spirits" in versione ambient-soul col vocoder acutissimo a palla. Che figata di finale è?

FrancescoB, autore, alle 8:54 del 6 maggio 2012 ha scritto:

In effetti è la classica ciliegina sulla torta, un pezzo spiazzante ed a suo modo geniale.

Filippo Maradei alle 11:17 del 3 giugno 2012 ha scritto:

Preso in custodia da pochissimo, già mi sta conquistando. Splendido scritto, Frà.

gabrisimpson (ha votato 8,5 questo disco) alle 10:16 del 14 settembre 2012 ha scritto:

Disco eccezionale, personalmente la miglior scoperta del 2012

Part Time Hero alle 11:24 del primo marzo 2013 ha scritto:

Nella recensione, non si fa cenno al brano "Fever" cantato da Hindi Zahra, che si trova sul cd venduto in Francia. Cercatelo e poi fatemi sapere cosa ne pensate. PTH

REBBY (ha votato 6,5 questo disco) alle 11:54 del primo marzo 2013 ha scritto:

Ehtte pareva, manca anche dal mio cd e mi sa tanto che è la mia preferita http://soundcloud.com/moovmnt/robert-glasper-experiment-fever-ft-hindi-zahra

Part Time Hero alle 14:46 del primo marzo 2013 ha scritto:

Bene, non avevo dubbi in proposito.

Peccato che anche sulla versione in vinile non ci sia.

Cercato in Japan ed in New Zealand ma senza esito. In Francia esiste solo su cd e non su vinile.

Sentito dal vivo (non "fever" purtroppo) gennaio 2010 Koko London, repertorio album precedente ("in My Element") fantastico.

PTH

fabfabfab alle 11:00 del 23 aprile 2016 ha scritto:

Io qualche buon musicista l'ho visto dal vivo, ma ieri sera sono rimasto sbalordito. Per le capacità dei singoli, innanzitutto (caratteristica tipica del jazz): Glasper che usa contemporaneamente e costantemente due pianoforti, Burniss Travis II riempe le ritmiche senza sosta, Casey Benjamin vale da solo il prezzo del biglietto, e poi hanno un motore alla batteria che fa spavento. Io uno come Mark Colenburg, vi giuro, non l'ho mai visto. Ma più che altro un senso di leggerezza e una bellissima attitudine pop (o hip-hop), che unisce la jam session jazz al cazzeggio puro. Hanno citato di tutto, da Roy Ayers e Kurt Cobain, si sono divertiti come ragazzini, hanno stravolto i canoni del concerto jazz pur avendo (e dimostrando) una capacità con gli strumenti fuori dal comune, hanno portato l'estetica hip-hop nella performance jazz. Non so, se questo il futuro, non vedo l'ora sia domani.

FrancescoB, autore, alle 14:52 del 23 aprile 2016 ha scritto:

Massima invidia per te Fab! Potendo, avrei voluto esserci. A distanza di qualche anno, confermo comunque le impressioni del tempo: questo disco rappresenta un passo in avanti, ha aperto la strada alla black wave con cui continuo a riempirmi la bocca. E non c'è un pezzo fuori posto. La musica nera ha riportato il jazz alle origini, e senza retorica: ha abbandonato l'accademismo un po' calligrafico delle scuole (anche e soprattutto bianche) per innervarlo con il linguaggio dell'hip-hop (e non solo).