Miles Davis
Kind of Blue
"Kind of Blue": lo metti nel lettore e scopri che la perfezione esiste.
Una perfezione che non ha nulla di ampolloso, di retorico, di artificiale: è naturale come un bicchiere d'acqua, anche se ha il sapore di un costosissimo champagne d'annata, uno di quelli che puoi sorseggiare una volta sola nella vita.
Gli americani parlano da decenni di "first take record". Storicamente questo non è esattamente vero, ma rimane il fatto che uno fra i momenti più geniali consegnati dalla musica del secolo scorso è stato concepito e messo su vinile nell'arco di due giorni, nell'arco di pochissimi takes. Sfruttando temi e frammenti melodici abbozzati da Miles Davis giusto alcune ore prima.
Raramente capita di identificare un genere musicale (che poi sarebbe una galassia dai contorni sfumati e in continua evoluzione) con un singolo lavoro: e invece "Kind of Blue", a torto o a ragione (entrambe le cose, direi), per tutti i non iniziati rappresenta IL jazz.
La sua copertina fumosa e aristocratica è uno status symbol, tanto che se la esponi in prima linea nella tua collezione di dischi guadagni automaticamente qualche punto agli occhi del visitatore ("Questo è uno che ne sa, devo stare attento ed evitare cazzate").
Questa musica possiede un'aura sofisticata, eppure è capace di fare breccia nel cuore di miriadi di persone che nulla sanno di jazz, e che ancora meno ne capiscono (io sono uno dei tanti, per dire).
La magia diventa carne. La musica espolora territori vergini, e raggiunge una forma di equilibrio sottile, rarefatta, silenziosa. Idee rivoluzionarie, pura e semplice bellezza e accessibilità si abbracciano come mai più sarebbe accaduto: i miracoli sono tali proprio per questo, Paganini non ripete proprio per questo.
"Kind of Blue" è l'unico disco che mette tutti d'accordo: jazzofili puri, vecchie cariatidi che insegnano nei conservatori, chitarristi rock alle prime armi, sassofonisti navigati, trombettisti inesperti. Pasionari dello swing, pianisti classici, persino i metallari, ma anche i devoti del Vangelo secondo Coltrane e i direttori d'orchestra. Persino noi para-critici senza una vera preparazione. Sarei meravigliato di scoprire qui, magari fra i lettori, il primo che si azzarda a smontare il disco: se esiste, abbiamo scollinato il concetto di mosca bianca e siamo più vicini a quello di E.T.
Procediamo con ordine: "Kind of Blue" cristalizza e consegna ai posteri un concetto rivoluzionario, quello di jazz modale, trasportandolo in atmosfere intrise di malinconia ma in fondo serene, a loro modo cool.
Il jazz modale: a me piace definirlo il fratello maggiore, tranquillo e posato, del free jazz. Demolisce i vecchi dogmi armonici e ritmici del bop e dell'hard-bop, anche nelle versioni più raffinate e colorate di bianco (cool californiano), ma lo fa con il sorriso, senza imbracciare le armi. Non ricerca il rumore e non squarta ogni regola: si limita a riscriverla, a deformarla, a pianificarne scientemente un utilizzo nuovo. Il significato politico e la rivolta rimangono sullo sfondo, la questione è puramente artistica.
Il jazz modale è teorizzato dal mai troppo celebrato George Russell, che si propone di semplificare la sovrastruttura del bop, liberandola dalle sue impalcature troppo rigide e vincolanti. Guarda anche all'antica Grecia, il vecchio Russell, per disegnare parabole sempre più sorprendenti: le scale Dorica, Lidia, Misolidia. Le progressioni dei vari suoni possono liberarsi dai paletti posizionati dall'armonia tonale, dai vari gradi della tonalità.
Anche Charles Mingus si avventura nella jungla e sfibra l'ortodossia occidentale, pur non sistematizzando il suo apporto.
Miles Davis e Bill Evans compiono invece il passo decisivo, strutturando progressioni musicali che si snodano su poche scale armoniche prestabilite. Le vertebre della musica scritta di tradizione europea si frantumano, la bestia stramazza al suolo: non si parla più di successioni regolari di accordi che si incastrano nella tonalità di riferimento (ciò che il nostro orecchio comprende meglio), ma di scale modali (sovente pentatoniche) correlate e intersecate nei modi più diversi.
I passaggi melodici diventano fondamentalmente liberi e suonano incompiuti, ai nostri timpani, perché i musicisti gli tolgono la tonica da sotto i piedi. Non esistono più i nostri centri gravitazionali, i sicuri approdi che consentono di intravedere uno sviluppo coerente e chiaro nella melodia, che la definiscono in modo rassicurante.
Il discorso armonico si semplifica (niente più cascate di accordi di complessa ideazione), ma diventa più interessante e polimorfo: senza urla, però. Si concretizza una rivoluzione radicale mentre una mano stringe una sigaretta e l'altra solleva un cocktail esotico. Si riscrive la sintassi e la morfologia della musica jazz in punta di piedi, in silenzio, senza strafare.
Analizzare i singoli pezzi è impresa ardua (gli hanno dedicato enciclopedie, persino tesi di laurea in musicologia), quindi non intendo cimentarmi con un'impresa troppo grande, o comunque troppo complessa per il sottoscritto e per queste poche righe.
Mi limito a qualche segnale di fumo: "So What" è il classico fra i classici, uno dei brani più celebri di tutta la storia della musica jazz. Un breve solo di basso che riscrive la Storia stessa (sette note-sette, dal si fino al do dell'ottava superiore), e poi un tema scattante, esposto prima all'unisono e quindi dai singoli musicisti in serie (a proposito, non li ho ancora nominati: sono un pazzo, ma rimedio subito).
Miles mette in mostra la sua sonorità rotonda e asciutta. Le note si annodano lasciando una scia vibrata ed elastica. Le maglie della tonalità si allargano lentamente, senza sforzo, e la rivoluzione prende forma.
La voce di Coltrane è più misurata del solito (o meglio, del futuro prossimo): suona calda e avvolgente ma ancora non si distende completamente in atroci lastre di suono, pur mostrandosi già a suo agio fra tempi velocissimi. Dio solo sa quanto l'esperienza con Miles risulterà fondamentale per le traiettorie della musica di John: "My Favourite Things" esce un anno dopo "Kind of Blue" e ne rimaneggia le idee di fondo in direzione coltraniana, iniettando quindi energia spasmodica e furia esecutiva.
"Cannonball" Adderley è più leggero, sbuffa e boccheggia con impareggiabile perizia. Il suo sassofono alto lambisce vertici di lirisimo meravigliosi, durante "So What" ma anche e soprattutto in "Flamenco Sketches".
Nominati Wynton Kelly (che al pianoforte colora di blues la lunga "Freddie Freeloader", ma per il resto resta in sordina), Jimmy Cobb (essenziale nel suo puntellato accompagnamento ritmico) e Paul Chambers (al basso), è fondamentale riconoscere a Bill Evans ciò che gli compete.
Non è un caso se le note al disco (lucidissime, una dichiarazione di intenti) portano la sua firma: Miles lo conosce da tempo e lo ammira perché "suona il piano come va suonato". Bill mette in mostra un repertorio raffinato e ricco, aiutato dalla conoscenza enciclopedica della musica, intesa sia come tecnica e teoria della composizione che come Storia. La sua abilità smisurata gli consente di destreggiarsi senza fatica rispetto a ogni genere musicale, il suo tocco perlato e delicatissimo rende ancora più preziose le dieci battute circolari di "Blue in Green" (l'introduzione al piano è pensosa ma freschissima), o il blues in 6/8 di "All Blues", dove Davis celebra il suo chiaro senso della forma, la sua libera concezione melodica, il suo suono vellutato.
Un cenno particolare voglio dedicarlo al tipo di malinconia che si racchiude nelle cinque scale dal sapore latino di "Flamenco Sketches", perché qui il geniale solismo di Miles Davis si perfeziona in luce pura, in un discorso lirico e misurato, che non spreca una nota. L'intervento finale di Evans è un raggio di sole che apre un varco fra le nubi. Dopo il lungo, straordinario solo di Adderley (per quanto mi riguarda, il momento più alto in assoluto) ecco una breve pausa, e quindi due accordi del piano risuonano nel vuoto, candidi, celestiali. Il silenzio diventa arte, lo spazio sonoro una tela dove dare sfogo alle proprie intuizioni.
L'interplay collettivo forse non ha mai saputo materializzare tanta bellezza: ogni musicista è attento a non calpestare i piedi altrui, l'improvvisazione diventa vero e proprio componimento istantaneo e di gruppo, valorizza al meglio l'ascolto reciproco. Uno stato di grazia collettivo si tramuta in simbiosi mentale, la ragione non imprigiona l'istinto, ma lo sublima.
Non è che l'inizio, per il jazz modale, ma nessuno in futuro tornerà a volare così in alto.
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