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R Recensione

10/10

Miles Davis

Kind of Blue

"Kind of Blue": lo metti nel lettore e scopri che la perfezione esiste.

Una perfezione che non ha nulla di ampolloso, di retorico, di artificiale: è naturale come un bicchiere d'acqua, anche se ha il sapore di un costosissimo champagne d'annata, uno di quelli che puoi sorseggiare una volta sola nella vita.

Gli americani parlano da decenni di "first take record". Storicamente questo non è esattamente vero, ma rimane il fatto che uno fra i momenti più geniali consegnati dalla musica del secolo scorso è stato concepito e messo su vinile nell'arco di due giorni, nell'arco di pochissimi takes. Sfruttando temi e frammenti melodici abbozzati da Miles Davis giusto alcune ore prima.

Raramente capita di identificare un genere musicale (che poi sarebbe una galassia dai contorni sfumati e in continua evoluzione) con un singolo lavoro: e invece "Kind of Blue", a torto o a ragione (entrambe le cose, direi), per tutti i non iniziati rappresenta IL jazz.

La sua copertina fumosa e aristocratica è uno status symbol, tanto che se la esponi in prima linea nella tua collezione di dischi guadagni automaticamente qualche punto agli occhi del visitatore ("Questo è uno che ne sa, devo stare attento ed evitare cazzate").

Questa musica possiede un'aura sofisticata, eppure è capace di fare breccia nel cuore di miriadi di persone che nulla sanno di jazz, e che ancora meno ne capiscono (io sono uno dei tanti, per dire).

La magia diventa carne. La musica espolora territori vergini, e raggiunge una forma di equilibrio sottile, rarefatta, silenziosa. Idee rivoluzionarie, pura e semplice bellezza e accessibilità si abbracciano come mai più sarebbe accaduto: i miracoli sono tali proprio per questo, Paganini non ripete proprio per questo.

"Kind of Blue" è l'unico disco che mette tutti d'accordo: jazzofili puri, vecchie cariatidi che insegnano nei conservatori, chitarristi rock alle prime armi, sassofonisti navigati, trombettisti inesperti. Pasionari dello swing, pianisti classici, persino i metallari, ma anche i devoti del Vangelo secondo Coltrane e i direttori d'orchestra. Persino noi para-critici senza una vera preparazione. Sarei meravigliato di scoprire qui, magari fra i lettori, il primo che si azzarda a smontare il disco: se esiste, abbiamo scollinato il concetto di mosca bianca e siamo più vicini a quello di E.T.

Procediamo con ordine: "Kind of Blue" cristalizza e consegna ai posteri un concetto rivoluzionario, quello di jazz modale, trasportandolo in atmosfere intrise di malinconia ma in fondo serene, a loro modo cool.

Il jazz modale: a me piace definirlo il fratello maggiore, tranquillo e posato, del free jazz. Demolisce i vecchi dogmi armonici e ritmici del bop e dell'hard-bop, anche nelle versioni più raffinate e colorate di bianco (cool californiano), ma lo fa con il sorriso, senza imbracciare le armi. Non ricerca il rumore e non squarta ogni regola: si limita a riscriverla, a deformarla, a pianificarne scientemente un utilizzo nuovo. Il significato politico e la rivolta rimangono sullo sfondo, la questione è puramente artistica.

Il jazz modale è teorizzato dal mai troppo celebrato George Russell, che si propone di semplificare la sovrastruttura del bop, liberandola dalle sue impalcature troppo rigide e vincolanti. Guarda anche all'antica Grecia, il vecchio Russell, per disegnare parabole sempre più sorprendenti: le scale Dorica, Lidia, Misolidia. Le progressioni dei vari suoni possono liberarsi dai paletti posizionati dall'armonia tonale, dai vari gradi della tonalità.

Anche Charles Mingus si avventura nella jungla e sfibra l'ortodossia occidentale, pur non sistematizzando il suo apporto.

Miles Davis e Bill Evans compiono invece il passo decisivo, strutturando progressioni musicali che si snodano su poche scale armoniche prestabilite. Le vertebre della musica scritta di tradizione europea si frantumano, la bestia stramazza al suolo: non si parla più di successioni regolari di accordi che si incastrano nella tonalità di riferimento (ciò che il nostro orecchio comprende meglio), ma di scale modali (sovente pentatoniche) correlate e intersecate nei modi più diversi.

I passaggi melodici diventano fondamentalmente liberi e suonano incompiuti, ai nostri timpani, perché i musicisti gli tolgono la tonica da sotto i piedi. Non esistono più i nostri centri gravitazionali, i sicuri approdi che consentono di intravedere uno sviluppo coerente e chiaro nella melodia, che la definiscono in modo rassicurante.

Il discorso armonico si semplifica (niente più cascate di accordi di complessa ideazione), ma diventa più interessante e polimorfo: senza urla, però. Si concretizza una rivoluzione radicale mentre una mano stringe una sigaretta e l'altra solleva un cocktail esotico. Si riscrive la sintassi e la morfologia della musica jazz in punta di piedi, in silenzio, senza strafare.

Analizzare i singoli pezzi è impresa ardua (gli hanno dedicato enciclopedie, persino tesi di laurea in musicologia), quindi non intendo cimentarmi con un'impresa troppo grande, o comunque troppo complessa per il sottoscritto e per queste poche righe.

Mi limito a qualche segnale di fumo: "So What" è il classico fra i classici, uno dei brani più celebri di tutta la storia della musica jazz. Un breve solo di basso che riscrive la Storia stessa (sette note-sette, dal si fino al do dell'ottava superiore), e poi un tema scattante, esposto prima all'unisono e quindi dai singoli musicisti in serie (a proposito, non li ho ancora nominati: sono un pazzo, ma rimedio subito).

Miles mette in mostra la sua sonorità rotonda e asciutta. Le note si annodano lasciando una scia vibrata ed elastica. Le maglie della tonalità si allargano lentamente, senza sforzo, e la rivoluzione prende forma.

La voce di Coltrane è più misurata del solito (o meglio, del futuro prossimo): suona calda e avvolgente ma ancora non si distende completamente in atroci lastre di suono, pur mostrandosi già a suo agio fra tempi velocissimi. Dio solo sa quanto l'esperienza con Miles risulterà fondamentale per le traiettorie della musica di John: "My Favourite Things" esce un anno dopo "Kind of Blue" e ne rimaneggia le idee di fondo in direzione coltraniana, iniettando quindi energia spasmodica e furia esecutiva.

"Cannonball" Adderley è più leggero, sbuffa e boccheggia con impareggiabile perizia. Il suo sassofono alto lambisce vertici di lirisimo meravigliosi, durante "So What" ma anche e soprattutto in "Flamenco Sketches".

Nominati Wynton Kelly (che al pianoforte colora di blues la lunga "Freddie Freeloader", ma per il resto resta in sordina), Jimmy Cobb (essenziale nel suo puntellato accompagnamento ritmico) e Paul Chambers (al basso), è fondamentale riconoscere a Bill Evans ciò che gli compete.

Non è un caso se le note al disco (lucidissime, una dichiarazione di intenti) portano la sua firma: Miles lo conosce da tempo e lo ammira perché "suona il piano come va suonato". Bill mette in mostra un repertorio raffinato e ricco, aiutato dalla conoscenza enciclopedica della musica, intesa sia come tecnica e teoria della composizione che come Storia. La sua abilità smisurata gli consente di destreggiarsi senza fatica rispetto a ogni genere musicale, il suo tocco perlato e delicatissimo rende ancora più preziose le dieci battute circolari di "Blue in Green" (l'introduzione al piano è pensosa ma freschissima), o il blues in 6/8 di "All Blues", dove Davis celebra il suo chiaro senso della forma, la sua libera concezione melodica, il suo suono vellutato.

Un cenno particolare voglio dedicarlo al tipo di malinconia che si racchiude nelle cinque scale dal sapore latino di "Flamenco Sketches", perché qui il geniale solismo di Miles Davis si perfeziona in luce pura, in un discorso lirico e misurato, che non spreca una nota. L'intervento finale di Evans è un raggio di sole che apre un varco fra le nubi. Dopo il lungo, straordinario solo di Adderley (per quanto mi riguarda, il momento più alto in assoluto) ecco una breve pausa, e quindi due accordi del piano risuonano nel vuoto, candidi, celestiali. Il silenzio diventa arte, lo spazio sonoro una tela dove dare sfogo alle proprie intuizioni.

L'interplay collettivo forse non ha mai saputo materializzare tanta bellezza: ogni musicista è attento a non calpestare i piedi altrui, l'improvvisazione diventa vero e proprio componimento istantaneo e di gruppo, valorizza al meglio l'ascolto reciproco. Uno stato di grazia collettivo si tramuta in simbiosi mentale, la ragione non imprigiona l'istinto, ma lo sublima.

Non è che l'inizio, per il jazz modale, ma nessuno in futuro tornerà a volare così in alto.

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Voto degli utenti: 9,6/10 in media su 29 voti.
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lev 10/10
loson 9/10
Cas 10/10
bargeld 10/10
ethereal 10/10
naico69 10/10
B-B-B 10/10
Mushu289 10/10
Lawrence 10/10
Lelling 10/10
GiuliaG 10/10
Grind 10/10

C Commenti

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rubenmarza (ha votato 10 questo disco) alle 15:43 del 15 maggio 2013 ha scritto:

bella recensione. nulla da aggiungere, il jazz elevato a massima forma d'Arte.

gull alle 16:21 del 15 maggio 2013 ha scritto:

Cit: "Kind of Blue: lo metti nel lettore e scopri che la perfezione esiste". Come non quotare. Ricordo che diversi anni fa la mia lei me lo regalò, scelto da me dallo store di un autogrill! Versione rimasterizzata con alcune alternate tracks. L'ho messo nel lettore ed in effetti il mio pensiero fu quello. Io da profano della materia sono impazzito di gioia, stupore, pace nell'ascoltarlo. Mente superiore, Dio, non so cos'altro pensare di quest'uomo (e di chi suonò con lui, va detto).

Utente non più registrato alle 20:33 del 15 maggio 2013 ha scritto:

Dinanzi ad un disco di tale levatura, con musicisti fenomenali, cosa si può dire?!

Uno dei più grandi Capolavori di tutta la Musica. Brividi. Meraviglia. Stupore.

Non sto neanche lì a perdere tempo con aneddoti sulla realizzazione di questo monumento...

lev (ha votato 10 questo disco) alle 22:29 del 15 maggio 2013 ha scritto:

senza parole.

mendustry (ha votato 10 questo disco) alle 19:23 del 17 maggio 2013 ha scritto:

Capolavoro, ma va detto che tutte le edizioni antecedenti al 2007 sono state registrate alla velocità sbagliata e quindi le melodie presentano una chiave errata. Solo dalle ristampe Mastersound in poi l'errore è stato corretto, remixando il tutto alla giusta velocità cosicché oggi la registrazione è finalmente uguale a come era stata originariamente pensata da Davis.

Utente non più registrato alle 20:12 del 17 maggio 2013 ha scritto:

Ben detto mendustry

Dr.Paul alle 14:31 del 19 maggio 2013 ha scritto:

disco eccezionale e ottimo scritto! So What da isola deserta. importantissimi anche i musicisti coinvolti tutta gente di primissimo ordine! ricordo durante i primi ascolti del disco lo stupore per l'alta qualità di registrazione, è un discorso che vale non solo per Davis ma anche per molti altri dischi jazz del periodo 57/60, una fedeltà audio eccezionale e parliamo di 5/6/7 anni prima di beatles, stones, who, doors....che al confronto erano dischi-chiavica per come erano registrati!! sbalorditivo!!

musicanidi alle 15:55 del 19 maggio 2013 ha scritto:

k

loson (ha votato 9 questo disco) alle 15:56 del 19 maggio 2013 ha scritto:

La recensione è come al solito accurata, e ha il pregio di mantenersi a giusta distanza dalla dissertazione teorica/musicologica senza per questo sacrificare l'analisi del dato musicale, rendendola, anzi, di facile comprensione, alla portata di tutti. Sacrosante le parole su "Palla di Cannone" Adderly, musicista fantastico che, per le mie orecchie, su questo disco suona agli stessi livelli di Coltrane se non meglio (ma il suo talento era già stato palesato da "Somethin' Else" del '5. Sul disco c'è poco altro da dire, se non che mette d'accordo (più o meno) tutti e, per una volta, il plebiscito ha tutte le giustificazioni di questo mondo. Bravo Francè!

loson (ha votato 9 questo disco) alle 15:57 del 19 maggio 2013 ha scritto:

* AdderlEy

Utente non più registrato alle 21:03 del 19 maggio 2013 ha scritto:

Beh!...Su questo Capolavoro venne usato un microfono per ogni musicista, due per la batteria, complessivamente 7, mixati in sala di controllo nelle 3 piste che all'epoca era il massimo della tecnologia. Fu sfruttato a pieno il riverbero naturale della sala nella 30° Strada e il morbido eco che si ascolta è ottenuto tramite un cavo collegato al mix che scendeva nello scantinato. Nella stanza era stato piazzato un altoparlante e un microfono omnidirezionale. La musica incisa veniva inviata all'altoparlante, riverberata nella stanza vuota ed infine mixata di nuovo sul master nella pista centrale.

Contrariamente alla leggenda che voleva i dischi di Miles incisi al primo take, durante la registrazione di Kind of Blue ci furono frequenti interruzioni. Sul disco finirono le uniche incisioni complete dei brani; non esistono alternate takes, a parte una di Flamenco Sketches.

A conferma che il 1959 è stato uno degli anni più importanti nella Storia del jazz...non va dimenticato che, due dei componenti di questo meraviglioso gruppo, nello stesso anno registrarono altri capolavori: "Giant Steps" di John Coltrane e "Portrait in Jazz" di Bill Evans.

Marco_Biasio alle 14:30 del 22 settembre 2014 ha scritto:

...e The Shape Of Jazz To Come di Ornette!

naico69 (ha votato 10 questo disco) alle 13:05 del 28 dicembre 2013 ha scritto:

Peccato non si possa votare 11 su 10. Se dovessi scegliere un unico disco da portarmi sulla "famosa" isola deserta, sarebbe sicuramente questo. Nient'altro da aggiungere

Mattia Linea (ha votato 4 questo disco) alle 11:37 del 15 agosto 2014 ha scritto:

Uno dei primi esempi di jazz modale e riconosciuto unanimemente come album jazz più importante di tutti i tempi. Musicisti incredibili a fare da contorno (Coltrane, Evans, Cobb,...). Personalmente lo preferisco nel periodo cosiddetto "elettrico" ("Bitches Brew" è un capolavoro): questo album, alla lunga, risulta noioso e (personalmente) indigesto. Miles, ciononostante, rimane un mostro al suo strumento.

glamorgan alle 17:24 del 12 ottobre 2014 ha scritto:

questo disco mi ha fatto conoscere il mondo del jazz, prima non lo ascoltavo mai, pensavo di non riuscire ad ascoltare qualcosa senza il cantato, adesso ho imparato ad apprezzarlo, dopo di lui ho preso dischi in vinile di thelonious monk, dave brubeck, charles mingus, cannonball adderley, charlie parker. Devo ancora capire quale sia il mio genere preferito....

Lawrence (ha votato 10 questo disco) alle 18:05 del 31 dicembre 2015 ha scritto:

"Wynton Kelly (che al pianoforte colora di blues la lunga "Freddie Freeloader", ma per il resto resta in sordina"...

Eh certo, non suonava!

A parte questa veniale imprecsione ottima recensione. Ovviamente sull'opera si possono scrivere (e sono già state scritte) tonnellate di materiale, anche se alcuni aspetti sono anora parzialmente oscuri.

Per la precisione, la questione della diversa velocità dei primi tre brani (il problema riguardava solo la prima facciata del LP), scoperta a me risulta nel 1992, fu risolta utilizzando i nastri dell'Ampex n.2, che avevano funzionato bene, e non rimixando il tutto.

Questo ed altri aspetti ben sviscerati nel libro di Ashley Kahn del 2000 ("Kind Of Blue" - New York 1959: Storia e fortune del capolavoro di Miles Davis - ed. it. 2003 - Il Saggiatore).

FrancescoB, autore, (ha votato 10 questo disco) alle 11:19 del primo gennaio 2016 ha scritto:

Non che voglia fare il maestrino ma si tratta chiaramente di un'espressione figurata, dico "in sordina" proprio per dire che non suonava, del resto mi pare di aver scritto che nel resto dei brani al pianoforte c'è sempre Bill Evans, non ci sono dubbi sul punto. Sono il maestro delle imprecisioni ma in questo caso direi che l'osservazione non ha grande valenza, sotto questo profilo

Per il resto mi fa piacere tu abbia apprezzato, ovviamente non si può dire molto di nuovo su questo disco, ho provato semplicemente a dire la mia adottando un punto di vista personale

Lawrence (ha votato 10 questo disco) alle 15:43 del primo gennaio 2016 ha scritto:

Innanzitutto Auguri a tutti per un ottimo 2016!

@FrancescoB: chiarisco che sottolineavo l'imprecisione, che avevo definito veniale, e che comunque rimaneva comprensibile a chi conosce il disco, solo perché a mio avviso poteva trarre in inganno un "neofita". In ogni caso, non è mia abitudine fare le pulci agli altri, e spero, se l'ho fatto, di averlo fatto con spirito leggero.

Un altro spunto interessante del disco, dal punto di vista storico: per qualche mese il LP venne venduto con i titoli dei due brani della 2.a facciata invertiti. Ovvero, "All Blues" era diventata "Flamenco Sketches", e viceversa. Questo perché Bill Evans, nelle liner notes, le aveva presentate in quell'ordine. L'ordine scritto dei brani fu presto ristabilito (dopo circa 50.000 copie, se ben ricordo), ma le brevi descrizioni di Evans rimasero nello stesso ordine ancora a lungo. Noto che sono state corrette dall'edizione in CD del 1997, ma io posseggo il LP e la prima edizione in CD con l'ordine di descrizione "sbagliato". Poco male, altro erroruccio veniale, se non fosse che... qualche anno fa il critico Stuart Nicholson instillò il dubbio che Evans non si fosse sbagliato, e che i titoli fossero effettivamente quelli. Cioè che il brano che noi conosciamo come "All Blues" dovesse intitolarsi "Flamenco Sketches" e viceversa. La questione è affrontata nel numero di luglio/agosto 2011 della rivista JazzIt.

Boh, premesso che a me pare 'na strunz..., voi che ne pensate?

Basstef alle 10:21 del 19 novembre 2017 ha scritto:

Ma in Flamenco sketches il primo solo è di Coltrane e poi di Adderley,

Lawrence (ha votato 10 questo disco) alle 9:33 del 23 novembre 2017 ha scritto:

Ciao Basstef, non capisco bene se fai riferimento al testo della recensione o al mio intervento qui sopra.

Nel primo caso, appunto sarebbe Adderley a chiudere idealmente la lunga sequenza di soli del disco, quindi la recensione dice una cosa giusta. Del resto, Coltrane suona sempre prima di Adderley in tutto il disco, tranne in All Blues.

Se invece parli della questione “titoli invertiti”, be’, Bill Evans nelle sue note di copertina non fa riferimenti agli ordini dei soli, ma unicamente alle strutture dei brani, in cui effettivamente Flamenco Sketches viene definito blues in 12 misure in 6/8, e All Blues una serie di 5 scale.

Quindi delle due l’una: o Evans descrive i brani nell’ordine del disco, ingannato anch’egli dall’errore dell’inversione dei titoli della prima copertina (cosa a cui credo maggiormente), oppure ha ragione Nicholson.

Al massimo, nella prima ipotesi, ci si può chiedere come abbia potuto un fuoriclasse come Evans non notare la stranezza di un Blues con titolo spagnoleggiante, e di un brano spagnoleggiante intitolato “All Blues”...

Però magari l’aveva fatto, che ne sappiamo, e se n’era semplicemente fregato!

Basstef alle 12:31 del 23 novembre 2017 ha scritto:

Mi riferivo alla recensione, quello di cui parli te penso sia un errore dell' editore. Se hai quel disco conservarlo con cura, un giorno varrà come un Gronchi rosa !

FrancescoB, autore, (ha votato 10 questo disco) alle 10:26 del 3 dicembre 2017 ha scritto:

In Flamenco Sketches Evans interviene in solitudine dopo il lungo assolo di Adderley, mi sembra di aver riportato la sequenza in modo corretto. E del resto Coltrane suona sempre prima di lui, tranne che in All Blues, come giustamente evidenziato

Bill74c27 alle 14:13 del 18 marzo 2018 ha scritto:

Cosa poter aggiungere a tutti i bellissimi gli elogi e le bellissime parole scritte da tutti voi su questo CAPOLAVORO?

Io dico solo che Flamenco ,è quella che mi fa sciogliere (di più delle altre tracce) il sangue nelle vene , Bill Evans,Coltrane e Mister Davis... magnifici magnifici...magnifici.

Utente non più registrat (ha votato 8,5 questo disco) alle 21:45 del 14 luglio 2019 ha scritto:

Per quanto possa contare il parere di un ignorante in materia come me, questo è senza dubbio il miglior album jazz dei '50. A seguire, il Pithecanthropus Erectus del signor Mingus. Per un terzo posto non ho affatto le idee chiare; forse il Brilliant Corners del signor Monk potrebbe essere un buon candidato.

Utente non più registrat (ha votato 8,5 questo disco) alle 21:40 del 11 giugno 2020 ha scritto:

Sapete una cosa? Più passa il tempo e più non trovo questo disco "IL jazz" - seppur all'inizio fossi anch'io di questo partito.

Il voto parla per me, è chiaro che lo considero un momento epocale per la storia del grande Jazz... però sì tratta di un'epocalità, per così dire, non seconda ad altri grandissimi dischi jazz degli anni cinquanta che sono "Erectus" e "Ah Um" di Mingus, "Freedom Suite" di Rollins, "Corners" di Monk, "Fontessa" del MJQ, "New York" di Russell, e lo "Shape" di Coleman. Non riesco cioè a pensare: "questo è una spanna sopra a quell'altro"; sinceramente, per me è come se andassero a braccetto.