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R Recensione

7,5/10

Yazz Ahmed

Polyhymnia

Come tutte le musiche che, oltrepassando barriere culturali e mettendo in comunicazione spaziotempi lontanissimi tra loro, si fanno racconto in perenne evoluzione della società in cui nascono e da cui vengono recepite, anche il jazz contemporaneo (e, nello specifico, la sua stupefacente rinascita popolare) può essere almeno in parte compreso osservando da vicino chi e perché lo produce – un atto che, prima del ciclone globalizzazione, era di per sé considerato specificatamente politico. Tra gli esempi più eclatanti di questo scorcio di fine 2019, sulle questioni attorno a genere e provenienza si impone – oltre alla narrazione tumultuosa della sempre impeccabile Matana Roberts – lo sguardo lucido di Yazz Ahmed: che è allo stesso tempo giovane, donna, meticcia (padre bahreinita, madre inglese), trombettista e flicornista jazz. Sul curriculum, in sintesi: apprezzata turnista per rinomate ragioni sociali di varia natura (ha suonato per These New Puritans, Radiohead, Spike Orchestra, Joan As Police Woman tra gli altri), già due dischi lunghi a suo nome (“Finding My Way Home” del 2011 e lo splendido “La Saboteuse” del 2017) e un pronunciato impegno sociale che, in ambito accademico, le ha fruttato diverse borse di studio e le ha permesso di esibirsi con una serie di performance tematiche in giro per il mondo.

Le origini del terzo full lengthPolyhymnia” (Polimnia, nella tradizione mitologica dell’antica Grecia, è la Musa protettrice delle arti coreutiche, della pantomima e della retorica), registrato tra il 2016 e il 2019, devono essere probabilmente tracciate al 2015, quando Yazz viene incaricata dall’associazione Tomorrow’s Warriors di scrivere una suite in onore di una serie di donne che hanno sfidato divieti e limitazioni del loro tempo e si sono imposte come personalità influenti. La suite, intitolata proprio “Polyhymnia”, viene eseguita per la prima volta nel marzo dello stesso anno al WOW! Festival, ad opera di una formazione di lusso tutta al femminile: grossomodo la stessa che, in guisa orchestrale, occupa i tre quarti dei credits complessivi del disco. Sfilano sotto gli occhi, come membri di un’unica grande famiglia, fior fiori di strumentiste con le quali abbiamo ormai preso confidenza nel corso degli ultimi anni: tra le altre, i sax di Camilla George e Nubya Garcia (Maisha, Nérija, Moses Boyd Exodus), la chitarra di Shirley Tetteh (Maisha, Nérija, SEED Ensemble), il piano di Sarah Tandy, il trombone di Rosie Turton (Nérija), la voce di Sheila Maurice-Grey (Nérija, Kokoroko, SEED Ensemble). Un connubio ideale tra preparazione tecnica e sensibilità emotiva, che rispecchia alla perfezione la scrittura di Yazz: densa ed ambiziosa ma mai complessa, esigente ma mai cerebrale, policroma ma mai kitsch, esotica ma mai caricaturale, moderna e tradizionale assieme.

È un ponte gettato fra due mondi, quello di cui si ammira la sinuosa silhouette nei primi venti minuti di “Polyhymnia”: sulla riva sinistra si snoda la trascendente, serpentesca arab-fusion di “Lahan Al-Mansour”, illuminata a giorno dagli onirici fraseggi del clarinetto basso di George Crowley (un senso della mistica che si pone tra Sun Ra, il Davis elettrico e Ahmad Jamal), sulla riva destra si gonfia il groove neo-bop di “Ruby Bridges” (con sax post-coltraniani, assoli saftiani di piano e i tromboni che, riflettendosi sugli arpeggi levitanti della chitarra di Tetteh, quasi si immergono in una bolla cool jazz a sé stante). Fantasia ed estetica, rigore e sentimento: un sentire strepitoso, unico nel suo genere, perfettamente riassunto nel geometrico e puntuto stacco pianistico (uno, bias a parte, ci potrebbe sentire persino i Nova Express zorniani) che spezza fragorosamente l’equilibrio modal-psych insufflato dal romantico crescendo di “2857” (il numero dell’autobus di Montgomery, Alabama su cui sedeva Rosa Parks) e lo trascina nella polvere di un funk atonale ed abrasivo per formazione allargata. La contaminazione linguistica dà il suo meglio nella conclusiva “Barbara”, dove l’ensemble suona una partitura quasi stravinskijana (si fa fortissima, qui, l’impressione di un’orchestra alle prese con una sonorizzazione astratta) su di un poliritmo in continua espansione, un congegno ritmico che evolve in un finale di catarsi bandistica.

Si potrebbe andare avanti all’infinito, a suggerire trame e connessioni, a scovare nuovi dettagli in brani che sembrano cambiare da un ascolto all’altro e la cui carica semiotica, quando lasciata in un cono di semioscurità, brilla di luce inesauribile (tant’è che il pur doveroso omaggio di “One Girl Among Many”, in cui figurano parti del discorso che Malala Yousafzai tenne all’ONU nel 2013 per il suo sedicesimo compleanno, non possiede la medesima carica lirica). Il dato non cambia: “Polyhymnia” è uno dei migliori dischi jazz dell’anno e l’opera che merita di far conoscere ad una più ampia platea Yazz Ahmed.

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