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R Recensione

9/10

Fabrizio De André

Crêuza De Mä

E 'nt'a barca du vin ghe naveghiemu 'nsc'i scheuggi

emigranti du rìe cu'i cioi 'nt'i euggi

finché u matin crescià da puéilu rechéugge

frè di ganeuffeni e dè figge

bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä

E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli

emigranti della risata con i chiodi negli occhi

finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere

fratello dei garofani e delle ragazze

padrone della corda marcia d'acqua e di sale

Non c’è forse scommessa più grande per un cantautore che quella di voler volutamente rinunciare alla parola nella sua dimensione discorsiva e significante. Quando poi ti chiami Fabrizio De André e alle spalle hai una carriera e una discografia straordinarie, capaci di importi nell’immaginario collettivo come uno dei massimi poeti in musica italiani (e non solo), una scelta simile appare davvero come un azzardo: un salto nel buio tanto coraggioso quanto capace di allontanare il favore del pubblico, di quegli ascoltatori affezionati che tanti anni prima si erano innamorati de “La Canzone Di Marinella”, “La Guerra Di Piero” e “Bocca Di Rosa”. Sarebbe potuto essere un passo falso in grado di dare l’inizio ad una parabola discendente in termini di visibilità e magari di ispirazione (immaginiamo quanto numerosi sarebbero stati i “te l’avevo detto”), e anche in quel caso quanto fatto precedentemente avrebbe consegnato Faber all’immortalità artistica.

E invece la sua grandezza, il suo essere stato qualcosa di più che un ottimo poeta in musica risiede forse proprio in questo passo ulteriore, in questa scommessa che lungi dal rappresentare una caduta o un punto d’arrivo è stata punto di partenza, scintilla capace di consegnare alla musica italiana due dei suoi più grandi capolavori, e che avrebbe potuto portare ancora più lontano se un male odioso non si fosse messo in mezzo. “Crêuza De Mä” è un disco interamente cantato in lingua ligure, scelta che va certamente ben oltre le ragioni anagrafiche e campanilistiche: nell’idioma genovese De André scopre – o meglio, riscopre – un linguaggio antico, tra i più usati nel Mediterraneo nell’ambito della navigazione e degli scambi commerciali, e quindi arricchitosi nei secoli di innumerevoli influenze, vero ricettacolo di culture e sonorità anche distantissimi tra loro. Il genovese di “Crêuza De Mä” assorbe parole ed espressioni dal greco, dall’arabo, dal francese, dallo spagnolo, e ci è tuttavia offerto nella sua peculiarità come lingua del mare, forse antica quanto il mare stesso e quanto gli uomini che il mare ha accompagnato per l’intera loro esistenza.

Pur con tutte le differenze del caso, non riesco a non vedere un parallelo con la storia di un altro italiano illustre, quel Lucio Battisti che la storia ha incensato come idolo del pop dimenticando troppo spesso la sua dimensione di (grandissimo) musicista e sperimentatore. Ma i punti in comune tra i due, troppo spesso ottusamente contrapposti in virtù di presunte e opposte simpatie politiche, non si limitano all’aver osato voltare in qualche modo le spalle alla sicurezza del proprio passato: per entrambi il passo in più si è concretizzato tramite un’apertura al diverso, un allargarsi di orizzonti, un “abbracciare” (la citazione da “Anima Latina” è in questo caso quanto mai adatta) il mondo nella sua infinità varietà di suoni e di linguaggi. Per entrambi il punto d’arrivo è stata l’America delle Ande e della foresta equatoriale, delle spiagge dorate e delle favelas, luogo in cui si fanno accecanti le contraddizione di una modernità troppo sicura di sé e troppo in sé orgogliosamente chiusa. Per De André c’è stato tuttavia il passo intermedio del Mediterraneo, terra di mare e di mondi diversi che si guardano da lontano, già in quegli anni teatro di conflitti le cui logiche sfuggono oggi come allora alla comprensione di noi europei eurocentrici – pur essendo specchio della drammatica situazione libanese negli anni dell’intervento internazionale, una canzone come “Sidún” parla il linguaggio non solo del dolore universale, ma di un dolore prossimo e quanto mai presente.

Alla luce di questo, il lavoro di De André (come quello di Battisti, d’altronde) riesce a superare la mera piacevolezza acustica per farsi, come ogni autentica opera d’arte, pungolo etico, apertura di orizzonti verso mondi possibili, realizzabili ma non ancora realizzati: “Crêuza De Mä” è un inno al Mediterraneo e alle sue diversità suonato e cantato nel linguaggio comune del mare e della collina, del pescatore e della prostituta, del denaro e del dolore. Disse lo stesso De André in un’intervista: “Ho usato la lingua del mare, un esperanto dove le parole hanno il ritmo della voga, del marinaio che tira le reti e spinge sui remi”. È straordinario come in “Crêuza De Mä” ogni pezzo riesca a caratterizzarsi e a collocarsi in un paesaggio a tinte sfumate, e questo senza ricorrere al potere chiarificante ma anche limitante del linguaggio discorsivo: Faber scopre, come forse nessuno prima in Italia, la parola nel suo intrinseco valore acustico, nella sua fisicità. Una dimensione nella quale l’orecchio umano (inutile continuare a stupirsi dei miracoli del nostro cervello) riesce malgrado la non comprensibilità a cogliere stimoli visivi, olfattivi, tattili, a liberare la mente in una sorta di immersione sinestetica nel paesaggio mediterraneo. Con “Crêuza De Mä” il cantautorato italiano scopre come forse mai prima l’espressività del non-significante: se Battisti aveva operato una “retrocessione” della voce nell’impasto strumentale, Faber la lascia in primo piano ma le toglie la zavorra della discorsività, lasciandoci apprezzare la poesia del dialetto genovese in maniera immediata. C’è poi ovviamente tutta una tavolozza di sonorità e timbri inusuali, una compagine di strumenti etnici che accompagnano la voce in paesaggi sonori limpidi e rarefatti: accanto alla voce e alla chitarra di Faber troviamo Mauro Pagani (qui nelle vesti di collaboratore, produttore e arrangiatore) alle prese con oud, saz, bouzouki (tutti strumenti a corde pizzicate), e poi i timbri inconsueti di zarb (percussione di origine persiana), shanai (aerofono a doppia ancia) e gaida (cornamusa di area balcanica).

E proprio con una suggestiva e a tratti inquietante aria di gaida si presenta il lavoro, per poi aprirsi al ritmo avvolgente e alle sonorità piene e solari della title-track: un viaggio lungo mulattiere polverose tra muri roventi, case di pietra e sapori tanto poveri quanto prelibati. L’intero disco si potrebbe leggere come una discesa dalla montagna di “Crêuza De Mä” al mare di “Dä Mæ Riva”, passando per il labirinto di vicoli e il porto di Genova: ma di fatto l’aria marina tutto pervade, e non c’è collina, casa o zattera risparmiata dal sale.

Jamín-a” è un’ode a una prostituta, sospinta da un ritmo di danza ossessivo e sensuale, e rappresenta “la speranza di una tregua”, di un’oasi di piacere e calore nel mezzo di una vita sempre sull’orlo del naufragio: al riparo del genovese De André può indulgere in espressioni che in italiano sarebbero suonate alquanto spinte (“Fattammiâ Jamín-a / Roggiu de mussa pin-a / E u muru ntu sûù / Sûgu de sä de cheusce / Duve ghè pei ghè amù sultan-a de e bagascie -  Fatti guardare Jamina / Getto di fica sazia / E la faccia nel sudore / Sugo di sale di coscie / Dove cè pelo cè amore sultana delle troie”), ma che in lingua madre evocano e suggeriscono senza ferire.

Ci allontaniamo dai confini rassicuranti della Liguria e approdiamo in Libano, accolti dalle voci di Ronald Reagan e Ariel Sharon e dal rumore dei carri armati. “Sidún” è semplicemente il vertice emotivo del disco e uno dei momenti più toccanti dell’intera produzione di Faber: nulla di più straziante e di più concreto del dolore di un padre cui è stato ucciso il figlio in nome di un odio senza tempo e senza ragioni (la “piccola morte” può tuttavia intendersi anche come la rovina di un piccolo paese, il Libano, un tempo culla dell’intera civiltà occidentale), il lamento di un popolo (di tutti i popoli) annientato dal “seme velenoso della deportazione”, lo stupore di un’umanità alla ricerca del proprio futuro e di un’“eredità nascosta” che il luminoso coro finale pare promettere e svelare da lontano.

Sempre in terre lontane ma questa volta per una storia che pare una favola, il racconto di un marinaio genovese detto Cicala che fu catturato dai turchi per poi salvare la vita al Sultano e diventare Gran Visir con il nome di Sinàn Capudàn Pascià: la vicenda di fatto si lascia solamente intravedere, lasciando spazio a suggestive immagini marinare e gustosi ritornelli popolari (“Intu mezu du mä / Ghè n pesciu tundu / Che quandu u vedde ë brûtte / U va nsciù fundu, / Intu mezu du mä / Ghè n pesciu palla / Che quandu u vedde ë belle / U vegne a galla”, evidente allegoria di un opportunismo che resiste ad ogni cambio di latitudine e di credo religioso). “’Â Pittima” e “Â Duménega” sono invece due suggestivi quadretti della quotidianità genovese: il primo dedicato alla figura tragicomica della pittima, costretta a causa delle sue carenze fisiche a vedersi affibbiato l’ingrato compito di riscuotere i debiti dai debitori insolventi; il secondo, arricchito sul finale dalla chitarra di Franco Mussida, alla passeggiata domenicale tradizionalmente concessa alle prostitute, altrimenti relegate in un quartiere di Genova. La musica fu composta con l’importante contributo di Pagani, che in un’intervista confessò di aver voluto scrivere un pezzo “alla De André” (“Io ho fatto “Â duménega” avvertendo Fabrizio che la gente avrebbe detto: Eh, questo è il Fabrizio di una volta!”), e infatti pare di cogliere echi del Faber più solare, quello di “Volta La Carta”, tanto per dirne una.

La folla rumorosa e pettegola si disperde, per lasciarci finalmente soli con il mare: cullato dall’etereo arpeggio della chitarra e dal sonnolento respiro delle onde, il marinaio in partenza saluta con un triste canto d’addio la donna amata e insieme la sicurezza della sua città. “Dalla mia riva / Solo il tuo fazzoletto chiaro, mi perdonerai il magone / Ma ti penso contro sole, e so bene stai guardando il mare / Un po’ più al largo del dolore”: dalla crêuza ripida e assolata della collina siamo finalmente giunti alla crêuza de mä, il sentiero del mare, la via del navigare che si richiude un istante dopo essersi aperta, monito eterno all’arrogante sicurezza umana e alla sua pretesa di eternità. Il mare è il luogo dell’insicurezza e dell’ignoto, di un viaggiare mai rettilineo che diviene errare: lasciare la terraferma significa abbandonarsi al capriccio del destino ma anche sfidare l’innato istinto alla prudenza e all’autoconservazione con una forza opposta e altrettanto antica, quella continua tensione verso l’Altro che rappresenta forse la sola vera ragione di crescita dell’essere umano.

Questo e molto altro è “Crêuza De Mä”, un’opera che è stata capace, a dispetto della scelta linguistica apparentemente suicida, di conquistare eguale consenso tra pubblico e critica (secondo un tale David Byrne “Crêuza” è tra i 10 dischi fondamentali degli anni ottanta), e di rappresentare l’ennesima vetta nella produzione di Fabrizio De André, figura capace ormai di rivelarsi come catalizzatore di esperienze musicali e cantautorali diversissime ma tutte di altissimo livello: forse l’unicità di Faber nel panorama dei cantautori italiani risiede proprio in questo, nell’essersi imposto come uno dei poeti in musica più grandi della penisola (e non solo, permettetemi), senza perdere in trent’anni un briciolo di potenza lirica e profondità espressiva, e lasciandosi tuttavia contaminare dagli stili e dagli idiomi musicali più diversi (anche grazie alla collaborazione con alcune tra le menti più geniali della scena italica), e sfornando opere che spesso e volentieri assurgono a esempi mirabili di fratellanza tra letteratura e musica, capaci come non mai di potenziarsi a vicenda.

L’ennesima vetta, si diceva, ma non l’ultima: lasciando da parte la pur dignitosa parentesi di “Le Nuvole”, l’esperienza fondamentale di “Crêuza De Mä” si rivelerà un formidabile punto di partenza. Dopo averci fatto ascoltare la lingua del Mediterraneo, l’orizzonte di Faber non può che aprirsi ulteriormente: le vie del mare ci portano oltre le colonne d’Ercole e uniscono il Mare Nostrum al vasto oceano, un ponte come un immenso arcobaleno cangiante è gettato tra i moli di Genova e le spiagge del Brasile. Ed eccoci a quel capolavoro inestimabile della musica italiana tutta che è “Anime Salve”, a parere del sottoscritto persino superiore al geniale ma per certi versi ancora acerbo “Crêuza De Mä”. Capita di imbattersi in discorsi circa una eccessiva santificazione del cantautore genovese, “sopravvalutato” specialmente nei suoi meriti musicali: al di là delle chiacchiere sterili, delle classifiche e di ogni forma di ostinato revisionismo ci sono due gemme di world music, da godere negli anni e nei secoli, per le quali dovremmo semplicemente chinare il capo e rendere grazie.

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Cas 9/10
luca.r 8,5/10

C Commenti

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zagor (ha votato 8 questo disco) alle 15:10 del 14 marzo 2016 ha scritto:

Grande recensione per un classico che va aldilà degli steccati, e lo dico da persona che non ha mai amato particolarmente De André. Il giudizio di Byrne è certamente un vanto per quest'opera, che si puo' tranquillamente inserire tra le cose migliori di tutto il filone "world" che è andato per la maggiore negli anni 80.. Mi preme ricordare il contributo di Pagani che viene generalmente un po' sottostimato, mentre a mio avviso avrebbe meritato un De Andrè-Pagani in copertina ( alla "my life in the bush of ghosts", visto che abbiamo citato il leader dei Talking Heads).

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 13:28 del 15 marzo 2016 ha scritto:

bellissimo. il Faber che preferisco.

luca.r (ha votato 8,5 questo disco) alle 16:22 del 16 marzo 2016 ha scritto:

caposaldo della musica italiana... Imprescindibile. Punto

Paolo Nuzzi (ha votato 9 questo disco) alle 16:34 del 17 marzo 2016 ha scritto:

Capolavoro, ma gli preferisco Anime Salve, per me il suo apice. Ottima recensione, complimenti!

rubenmarza, autore, alle 20:20 del 17 marzo 2016 ha scritto:

Grazie, spero di aver saputo rendere merito a un simile monumento. E comunque d'accordo con te, Anime Salve capolavoro tra i capolavori