Fabrizio De André
Tutti Morimmo A Stento
Quando nel 1968 vide la luce, Tutti Morimmo A Stento fu una sferzata di vento gelido sul mellifluo e lusinghiero panorama musicale italiano. Pochi anni prima il cantautore genovese si era già fatto apprezzare per canzoni di protesta come La Guerra Di Piero o per ballate struggenti quali La Canzone Di Marinella.
La poesia ribelle, lumana solidarietà, lo stiletto dellironia furono gli elementi fondamentali che contraddistinsero gli affreschi musicali di De André ad inizio carriera, ma che lo accompagneranno fino alle sue ultime composizioni; uno stile che muterà nel tempo ma che ruoterà sempre attorno ad una personalità fondamentalmente invariata.
Ma torniamo agli inizi, luomo libero (come credo piacesse al nostro o almeno è un epiteto che piace molto a chi scrive), si rifaceva alla tradizione degli chansonnier francesi (Brassens in primis) e dei songwriter americani come Dylan e soprattutto Cohen, rielaborandoli in uno stile personale, asciutto, diretto. I personaggi delineati da De André ci parlano da mondi vicini al nostro cuore ma che abbiamo timore di ricordare, con la loro carica di disperazione, umanità, magia. La semplicità e la democraticità dei versi del paroliere genovese celano unestenuante lavoro delaborazione letteraria. Le storie spesso tratte da fatti di cronaca o da autori amati (Balzac, Proust, Maupassant, Flaubert, E.L. Masters, Fellini) si rivelano attraverso le lenti esistenziali del nostro (mi si conceda tale espressione ricalcando i versi de Un Ottico, Non Al Denaro, Non AllAmore, Né Al Cielo, 1971), filtrano fra i corridoi dellanima e ci vengono restituiti in pietre luminose. Ecco il tesoro nascosto nelle vite disperate, quel malinconico passeggiare nella via fetida, quel odore di letame che sa tanto di uomo (inutile qui citare la storia di una certa via che tutti ricorderanno).
Linconsolabile ricerca di umanità si riscontra anche in questo piccolo capolavoro, che risente forse di uneccessiva ridondanza negli arrangiamenti e di una esagerata ampollosità nellorchestrazione, diretta dal maestro Giampiero Riverberi, ma che racchiude al suo interno una carica espressiva enorme, una poesia spesso barocca ma mai fine a se stessa, un viaggio desolante fra i derelitti dellumanità. De André sacrifica la sua riflessione sul tema della morte.
La morte del singolo, attraverso le storie dei personaggi che man mano vanno delineandosi, diventa morte dellumanità intera, condanna inflitta dalla natura alluomo (non mi sento di dire inflitta da Dio perché su questo tema il nostro si pronuncerà in un altro fortunato lavoro due anni dopo). Ancorati a tale principio è però angosciante e contraddittorio constatare come spesso il destino dellindividuo sia dominio nelle mani di un altro individuo. Su tale assunto si scaglia linvettiva di De André in Tutti Morimmo A Stento, affrontando un argomento che rappresenta, forse, il nodo cruciale dellintera sua poetica; la gestione del potere. Che sia in ambito religioso (La Buona Novella, 1970), politico (Storia Di Un Impiegato, 1973) o potremmo dire esistenziale come in questo caso, fintanto che esisterà amministrazione e controllo sullautonomia dellindividuo nelle mani di unautorità invisibile, non potrà esistere libertà delluomo. Ecco allora un appello alla solidarietà in Tutti Morimmo A Stento, una riflessione sullo scarto che esiste fra luomo ed il divino in La Buona Novella, labbattimento di qualsivoglia potere in Storia Di Un Impiegato; ecco lanarchismo di De André. Anarchismo inteso come condizione nella quale ognuno si da leggi per sé, senza intaccare però la libertà degli altri.
Lanarchia/utopia si manifesta in Tutti Morimmo A Stento in versi taglienti, ironici; De André è testimone oculare, scrivano attento al processo dellumanità.
Così nel Cantico Dei Drogati raccoglie linfelice deposizione di un uomo ormai sul confine tra la vita e la morte; lincipit è sconvolgente: Ho licenziato Dio / Gettato via un amore / Per costruirmi il vuoto / Nellanima e nel cuore. Ed ancora Chi mi riparlerà / Di domani luminosi / Dove i muti canteranno / E taceranno i noiosi, E soprattutto chi / E perché mi ha messo al mondo / Dove vivo la mia morte / Con un anticipo tremendo; qui il baritono di De André sembra sussultare in un fremito di mestizia mantenendo però quel distacco canoro che non è incapacità dimmedesimazione o cattiva interpretazione, ma è più come il tono fermo del coraggioso che lancia una sfida appena prima dellesecuzione. La musica è suadente ed ispirata, decadente ed a tratti speranzosa. Il ritornello (se così si può definire) è senza dubbio una delle pagine più tristi della storia della musica italiana: Come potrò dire a mia madre che ho paura?.
Un breve intermezzo dallacerba sfumatura progressive (ce ne sono tre nel corso dellopera, per tenere fede alla forma classica della cantata) ci catapulta in uno scenario diverso. Nella Leggenda Di Natale, fra le tende di una fragile ballata, si consuma la favola nera di una bimba violata: E venne linverno / Che uccide il colore / E un babbo natale / Che parlava damore / E doro ed argento / Splendevano i doni / Ma gli occhi eran freddi / E non erano buoni. Linnocenza della rima baciata e la delicatezza di pochi accordi arpeggiati addolciscono, come già era successo con Marinella, la morte della malcapitata ed è qui che sta la forza della musica e della poesia di De André, il saper ricostruire la storia di unesistenza traviata innalzandone il ricordo attraverso la poesia e la fiaba, rendendola così senza tempo. Mi piace qui richiamare alla mente quel brano che De André scrisse anni prima per il collega Luigi Tenco, nella quale chiedeva pietà a dio per il gesto estremo dellamico; che Dio esista o no, non credo sia rimasto insensibile ad una simile invocazione.
Il secondo intermezzo spiana la strada a La Ballata Degli Impiccati, liberamente tratta da Ballade Des Pendus del poeta maledetto François Villon. Qui i condannati alla forca manifestano il loro rancore per la vita e la pena; i versi di De André sono scarni, taglienti, sarcastici, mai retorici; "Chi derise la nostra sconfitta / E lestrema vergogna ed il modo / Soffocato da identica stretta / Impari a conoscere il nodo / Chi la terra ci sparse sullossa / E riprese tranquillo il cammino / Giunga anchegli stravolto alla fossa / Con la nebbia del primo mattino / La donna che celò in un sorriso / Il disagio di darci memoria / Ritrovi ogni notte sul viso / Un insulto del tempo e una scoria.
La musica dipinge sullo sfondo atmosfere funebri; il barrito solenne della tromba sembra scandire le diverse fasi di unesecuzione pubblica.
La malinconica Inverno, invece, insegue la tradizione settecentesca delle poesie stagionali. Dopo un breve incipit a venature jazz, ecco srotolarsi la melodia in tutta la sua grazia. I versi setacciano un altro tema caro al cantautore genovese; quello della ciclicità degli amori. Linverno che uccide i colori (come già ne prendeva atto la Leggenda Di Natale) raffigura la crisi della coppia e linevitabile scioglimento. Il brano alterna attimi di speranza a frangenti di mestizia cristallina. Nel finale la triste presa di coscienza: Ma tu che stai, perché rimani? / Un altro inverno tornerà domani / Cadrà altra neve a consolare i campi / Cadrà altra neve sui camposanti.
Là dove Inverno cedeva il campo a quel tipo di tristezza che spesso ricerchiamo nella vita di tutti i giorni, Girotondo ci proietta nel mondo della paura e dellorrore; fra le buche di un campo martoriato dalle bombe si svolge la danza macabra di un gruppo di bimbi (impersonati da un coro di voci bianche) che inneggiano alla guerra. Un carillon grottesco che sfocia nei versi: La terra è tutta nostra / Marcondirondero / Ne faremo una gran giostra / Giocheremo a farla nostra / Abbiam tutta la terra / Giocheremo a far la guerra / Marcondirondà. Davvero un pugno in faccia per il panorama musicale di quel periodo ma anche per quello attuale. È triste pensare come questo brano, come tanti altri scritti da De André contro la guerra, sia così dannatamente attuale. Diceva Fabrizio: Ho cantato per tanti anni La Guerra Di Piero e non è mai servito a niente.
Il terzo intermezzo ci accompagna alla suite finale per orchestra, coro, e recitativo. Qui linvettiva di De André contro legoismo e linsensibilità umana raggiunge il suo parossismo; la poesia si fa carico e da voce a tutto il male e lingiustizia del mondo: Noi che invochiam pietà siamo i drogati / Dellinumano varcando il confine / Conoscemmo anzitempo la carogna / Che ad ogni ambito sogno mette fine / Che la pietà non vi sia di vergogna, e ancora Noi che invochiamo pietà fummo traviate / Navigammo su fragili vascelli / Per affrontar del mondo la burrasca / Ed avevam gli occhi troppo belli / Che la pietà non vi rimanga in tasca. Il Recitativo è alternato ad un Corale che, utilizzando i vicoli della parabola, fa leva sulla solidarietà umana, riscoprendo lantico valore della fratellanza. Le ultime parole sono una mesta constatazione: Uomini cui pietà non convien sempre / Mal accettando il destino comune, / Andate, nelle sere di novembre, / A spiar delle stelle al fioco lume, / La morte e il vento, in mezzo ai camposanti, / Muover le tombe e metterle vicine / Come fossero tessere giganti / Di un domino che non avrà mai fine ed uninvocazione: Non cercare la felicità / In tutti quelli a cui tu / Hai donato / Per avere un compenso / Ma solo in te / Nel tuo cuore / Se tu avrai donato / Solo per pietà.
Credo sarebbe utile rispolverare un opera di tale ispirata lucidità in un epoca nella quale si è perso il rispetto della vita altrui e soprattutto della morte altrui. Vorrei ricordare, in queste ultime frasi, alcuni miei cari amici che, il giorno dopo limpiccagione di un uomo, sono corsi su internet per scaricarne il filmato. Vorrei ammonirli affettuosamente con i versi di un brano che Fabrizio aveva tradotto dal grande maestro Georges Brassens: Tanto più che la carogna è già abbastanza attenta / Non cè nessun bisogno di reggerle la falce.
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