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R Recensione

9/10

Francesco Guccini

Via Paolo Fabbri 43

Nel 1976 Francesco Guccini è ormai un cantautore affermato sulla scena nazionale: 5 gli LP già pubblicati (più il live “Opera Buffa”), tra i quali spicca “Radici”, senza dubbio uno dei suoi lavori più noti e apprezzati con canzoni divenute leggenda – da “La Locomotiva” a “Il Vecchio E Il Bambino” a “Incontro”. Ma siamo solo agli inizi di una carriera durata quasi cinquant’anni (dico “durata” avendo Guccini definito “L’Ultima Thule” come la sua opera ultima, ma in molti saremmo felici di smentirlo), il cantautore emiliano ha ancora molto da dire e ce lo dimostra come meglio non potrebbe con “Via Paolo Fabbri 43”.

Il titolo è ispirato all’indirizzo della residenza di Guccini a Bologna: ed è effettivamente una realtà domestica che traspare dalle sei tracce, una quotidianità dimessa dove tra un bicchiere di vino e una serata in osteria emergono interrogativi brucianti, “fantasmi e sogni vani”. A volerlo definire (premesso che definire significa in parte sempre appiattire e banalizzare), troviamo qui un Guccini certamente più esistenziale che politico, lucido cantore di una quotidianità che nasconde abissi di profondità e di introspezione.

Con lui suonano alcuni tra i musicisti “storici” del suo percorso artistico (Ares Tavolazzi al basso, Ellade Bandini alla batteria e Vince Tempera alle tastiere): in pressoché tutte le canzoni Guccini parte su una base semplice di chitarra acustica, che via via si arricchisce di timbri e melodie più articolate, con percussioni, archi e tastiere (inconfondibile l’intervento del contrabbasso su “Piccola Storia Ignobile” e quello della tuba su “L’Avvelenata”). In “Via Paolo Fabbri 43” poi (l’episodio musicalmente più rilevante dell’album) si arriva ad un vero festival di sonorità e ritmiche, con chitarre, basso, percussioni e armonica a rincorrersi e intrecciarsi sopra l’incedere indolente della voce.

Ma tutto questo non è che l’involucro (seppur godibilissimo) nel quale Guccini racchiude un’opera dal valore poetico e umano immenso: dolenti note di basso introducono “Piccola Storia Ignobile”, storia di un aborto vissuto nel contesto di un ambiente borghese ipocrita e moralista. Un tema difficile, che Guccini riesce a sviscerare mettendosi alternativamente nei panni della protagonista e della famiglia, dosando delicata compartecipazione (“e così ti sei trovata fra paure e fra rimorsi / davvero sola fra le mani altrui / Che pensavi nel sentire nella carne tua quei morsi / di tuo padre di tua madre e anche di lui”) e amaro sarcasmo (“ed allora questo sbaglio è stato proprio tutto tuo / noi non siamo perseguibili per legge”).

Già dopo questa prima traccia ci sarebbe molto su cui riflettere, interrogativi a cui quarant’anni di storia non hanno saputo dar risposta: ma non se ne ha il tempo perché subito arrivano gli arpeggi acustici diminuiti di “Canzone Di Notte N.2”. Personalmente la ritengo una delle migliori composizioni di Guccini: in poche parole riesce ad esprimere sensazioni che ti toccano nel vivo, momenti che ti sembra di aver già vissuto in prima persona ma che solo ora riesci a cogliere appieno. È notte, si è smorzato l’eco dei “brindisi felici” e rimasto solo con la chitarra e con una bottiglia di vino il protagonista si abbandona alla riflessione, agli interrogativi e ai dubbi: di qui i sui pensieri si abbandonano a quei voli pindarici che lo portano a posarsi in luoghi apparentemente lontani e ad interrogarsi sul proprio posto nella società e nel mondo. “Strani fantasmi e sogni vani… poi… la bottiglia è vuota”. Bellissima.

Dopo il momento di riflessione viene lo sfogo: ed ecco che con la celebre “L’Avvelenata” Guccini si prende il tempo per far dell’ironia più o meno amara su praticamente tutto ciò che lo circonda. Su se stesso, prima di tutto (“io falso, io vero, io genio, io cretino, io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, voglia di bestemmiare!”), sul mestiere e sui “colleghi cantautori” (“voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni”), sul critico Bertoncelli che di lui aveva detto “ormai si vede che non ha più nulla da dire” (pare tra l’altro che tra i due sia poi nata una sincera amicizia). Un solo aggettivo: liberatoria.

Il lato B del vecchio LP si apre ancora nel segno dell’ironia, seppur con un carattere decisamente più dimesso: “Via Paolo Fabbri 43” è una cavalcata di 8 minuti in cui il poeta lascia ancora dar libero corso ai suoi pensieri, stavolta all’alba (“un pugno in faccia verso cui tendo le braccia”). Sopra un frenetico rincorrersi di basso, piano e armonica si susseguono sogni ad occhi aperti e citazioni letterarie (ancora una frecciatina ai colleghi Venditti, De Gregori e De André): si potrebbe definirla una risposta “diurna” alla malinconia di “Canzone Di Notte N.2”, una sorta di joyciano stream of consciousness dal sapore goliardico.

Tutt’altra aria si respira nella bellissima e struggente “Canzone Quasi D’Amore”: non una semplice canzone d’amore, ma un’amara quanto disarmante riflessione sullo scorrere del tempo, sull’incomunicabilità (“Non starò più a cercare parole che non trovo / per dirti cose vecchie con il vestito nuovo”), sulla vita “costretta come dita dei piedi” in cui ci affanniamo alla continua ricerca di un passato ormai lontano, sulla noia, su una quotidianità tediosa in cui non ci resta che “tentare goffi voli, d’azione o di parola, volando come vola il tacchino”. La voce di Guccini si muove sopra il gemere strascicato del violino, un quadro dal realismo amaro che termina con l’emblematica parola “grattarsi”. Poco da dire, bellissima anche questa, impossibile restare indifferenti.

Ma il nostro soggiorno in via Paolo Fabbri non è ancora finito, resta l’ultimo, sublime, straziante squarcio di vita vissuta: “Il Pensionato” è un ritratto dalle tinte crepuscolari, una foto ingiallita e corrosa dal tempo e dalla polvere. Bastano pochi versi ed eccolo lì nella sua casa, tra “giornali vecchi ed angoli di polvere e di odori”, un’esistenza scandita da un “tic-tac di sveglia che enfatizza ogni secondo” e trascorsa a rincorrere il tempo andato. Una presenza costante quanto evanescente dall’“antica cortesia”, dimenticato dal mondo e destinato a divenire “soltanto un’impressione che ricorderemo appena”. Un riflettore puntato su quella che oggi è una condizione fin troppo comune: da brividi.

Sono passati poco più di 30 minuti, ma il nostro soggiorno in via Paolo Fabbri è stato incredibilmente denso: non c’è stato neppure il tempo materiale per riflettere su tutto ciò che ci si è disvelato, e ogni canzone meriterà un nuovo ascolto, stavolta certo più consapevole, e alcuni versi si scolpiranno granitici nella nostra mente. Guccini non ha fatto la storia della musica, lui non si mette tra “i geni musicali” che “son poeti, santi, taumaturghi e vati”: ma di certo ha cambiato l’arte del cantautorato italiano, ha cambiato generazioni di ascoltatori e ancora oggi, a distanza di quarant’anni, continua ad ampliare i nostri sguardi sul mondo e sulla vita.

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Voto degli utenti: 8,3/10 in media su 14 voti.
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rubiset 7,5/10
Steven 8/10
B-B-B 8,5/10
Lelling 8,5/10

C Commenti

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FrancescoB (ha votato 8 questo disco) alle 18:17 del 17 maggio 2013 ha scritto:

Grande disco, personalmente preferisco "Radici", ma è più che altro questione di dettagli.

Giuseppe Ienopoli alle 12:17 del 18 maggio 2013 ha scritto:

Nota a margine.

... singolare che Guccini entri in "Storia della Musica" proprio quando decide di uscirne ... clap clap a Ruben e un invito ai recewriters di "tutelare" di più i beni culturalsonori di ogni ordine e provenienza ... magari a scapito di innumerevoli cineserie che intasano i siti musicali del terzo millennio e che il più delle volte durano meno di un pacchetto di sigarette nelle tasche di Camilleri ... sob!

rubenmarza, autore, (ha votato 9 questo disco) alle 12:56 del 18 maggio 2013 ha scritto:

grazie Giuseppe, personalmente ritengo che Guccini rappresenti una figura cardine del panorama artistico italiano e la sua presenza in un sito vasto e aggiornato come questo la vedo quasi doverosa. conto di farmi risentire con altre sue opere.

Giuseppe Ienopoli alle 0:44 del 15 gennaio 2014 ha scritto:

... ma grazie soprattutto a te e complimenti per le tue scelte ... impegnative e di qualità.

Capisco che recensire Guccini, in questi tempi, è assimilabile alla "mania" del salmone che decide di deporre le uova ...con la differenza che tu riesci a cavartela brillantemente!

Se effettivamente volessi "farti risentire", potrei consigliarti Amerigo, l'album successivo a Via Paolo Fabbri 43 ... è un disco poco citato nella vasta produzione di Francesco, ma è ricco di spunti tematici e presenta arrangiamenti molto elaborati rispetto allo standard gucciniano ... tutti elementi che me lo fanno preferire e a pensarci bene risulta "più contemporaneo" oggi rispetto alla sua data di uscita ... merita la tua prossima recensione!

Steven (ha votato 8 questo disco) alle 16:52 del 28 giugno 2014 ha scritto:

Guccini brilla indubbiamente per una straordinaria sensibilità alle cose dell'uomo. Riesce a indugiare in luoghi spesso attraversati con disagio o mappati grossolanamente, e a narrarli con una gentilezza sottile, che non lascia molto spazio alla generalizzazione - e allo stesso tempo con una potenza lirica che ha dell'universale; con uno sguardo comprensivo, ma ferocemente privo di compromessi. Non so se questo sia il suo disco migliore, ma l'angoscia per i minuti che passano inesorabili, i rimpianti per le opportunità perse e l'esistenzialismo fatalistico che popolano la periferia di Via Paolo Fabbri testimoniano di una personalità unica nel panorama italiano, tanto burbera nell'immagine quanto aggraziata nell'anima.

Mattia Linea (ha votato 10 questo disco) alle 16:24 del 14 agosto 2014 ha scritto:

Un disco immancabile nella collezione di ogni appassionato di musica e belle storie. Nelle parole di Guccini (in questo disco particolarmente) si possono ritrovare gli amori passati, la rabbia giovanile e le serate con gli amici. Il suo album più bello assolutamente.

In stato di grazia.

dissonante (ha votato 8,5 questo disco) alle 22:44 del 21 aprile 2015 ha scritto:

Non tutto allo stesso livello. Ma c'è "Il pensionato" e, soprattutto, c'è "Canzone quasi d'amore": una canzone di assoluta perfezione, uno dei grandi picchi gucciniani e non solo.