The Decemberists
What A Terrible World, What A Beautiful World
Un mondo terribile
Per il calendario lunisolare cinese, il 2015 appena inaugurato sarà, come già nel 2003, lanno della capra. Rassomiglia quasi ad uno scherzo, o ad unutopia in minore, se confrontata con il ruggente cavallo che si è lanciato in lontananza al trotto, assieme agli ultimi dodici mesi. Chi sogna capre, oltre a necessitare di una vacanza defatigante, fantastica, in realtà, di una libertà sconfinata ed un poco egotica, perennemente frustrata da una realtà costrittiva, insoddisfacente. Chi sogna capre desidera alzare la testa, incornare lo steccato in cui è rinchiuso e scappare via, altrove, a recitare altri ruoli, a vivere altre vite. Ci si può chiedere, strada facendo, quale sia stato lattimo preciso in cui Colin Meloy e scialuppa musicante al seguito hanno oltrepassato la tacita linea che separa i bardi dai cantori di corte, il mosaico dei reietti dal pantheon degli eletti, la sagace precarietà dalla puntigliosa accademia. Tanto poté, forse, la superba ambizione covata già in seno a Castaway And Cutouts, fiorita nella linearità tematica di The Tain, erotta e strabordata in The Hazards Of Love, nuovamente addomesticata in The King Is Dead. Li vinse, ancora, la sensazione di governare un veliero rimasto indenne nonostante marosi e tempeste, tra gli ubriachi e i folli in Cristo di Her Majesty The Decemberists, le chincaglierie barocche di Picaresque, lesaustiva grandeur di The Crane Wife.
What A Terrible World, What A Beautiful World è, sin dalla scelta logorroica del titolo, lantologia dei Decemberists, il disco angolare (settimo, non a caso) che meglio di ogni altro è deputato a raccogliere leredità di un messaggio quasi ventennale. Pur di adempiere ad un compito così delicato per quanto sia legittimo accostare burocrazia e impegno , il quintetto di Portland, Oregon si sistema i ciuffi in disordine, indossa il vestito buono, ripone con cura il fazzoletto nel taschino e si avvia a celebrare la compiuta borghesizzazione dello storytelling, così come si può intendere nel singolo apripista Make You Better: scenografie spectoriane, pompose nellaccezione vuota e deteriore del termine (di romantiche piano ballad del genere, con accompagnamento corale in sottofondo e lievi accordi di elettrica a ricalcare la melodia, ne è zeppo luniverso), un arrangiamento piatto ed accomodante, non un solo sussulto. La stessa confessione a cuore aperto di The Singer Addresses His Audience (lo stralcio di vissuto cripto-autobiografico che apre la scaletta) sembra procedere su due livelli fra loro paralleli, con profondi lampi di violoncello costretti a far posto ad un crescendo, ritmico e chitarristico (quasi un gospel bianco da convention democratica), stucchevole e patinato. Una brava crestomazia che si rispetti, peraltro, non può privarsi del piacere narcisistico dellautocitazione: tale è Anti-Summersong, che ammonticchia i violini e le armoniche di 5 Songs dentro una cornice acustica à la Mumford & Sons, così come 12-17-12, che è una torch song dylaniana buona solamente a rimpiangere i vecchi classici.
Dagli anta agli enta, i Decemberists diventano adulti, ma in una maniera compassata e prevedibile. Lunico inno che può suonare oggi, sul loro palco, con buona pace dei decabristi, è quello americano.
Un mondo meraviglioso
Non può esistere il bene senza il male. Non può sostenersi e concepirsi il bianco se non come piena ricchezza di tutto ciò che manca al nero. Lintera vita umana può essere concisamente riassunta su questo principio. Dove cè il terribile, lì sboccerà il meraviglioso. Ecco perché i Decemberists, che della vita e delle sue gozzoviglie corporali, avventure spirituali, invenzioni mentali sono (stati) impareggiabili menestrelli, giungono ad una prima, ideale retrospettiva proprio con What A Terrible World, What A Beautiful World, a quattro anni di distanza da un The King Is Dead che aveva avuto il coraggio di invertire il senso di una marcia oramai troppo magniloquente. Sic transit gloria mundi (You never really know / when the whistles gonna blow): si va e si viene, così come suggerito nel blues hard-boiled di Easy Come, Easy Go e, a volte, per innovare bisogna veramente, intenzionalmente rifarsi alle radici (Better Not Wake The Baby è un cupo lamento marinaresco da antico canzoniere scozzese, parente contemporaneo di celebri traditional come Lord Randal). La riflessione dicotomica si fa più intensa e marcata nelle fumose, dolenti acustiche di Till The Water Is All Long Gone, una strana creatura pentatonica sospesa tra la rapsodia popolare e lamericana randagia (la Shara Worden che interpretò la Regina di The Hazards Of Love si aggira ancora minacciosa): è, di fatto, il punto di svolta dellintero disco, una creazione semplice ma intensa, lineare eppure densissima.
La ruota sembra semplicemente girare. Si è più volte rimarcato, a ragione, il carattere omnicomprensivo di What A Terrible World, What A Beautiful World, ma è indubbio che i Decemberists doggi siano ormai lontanissimi dai loro frangenti più pomposi e leziosi di fine decennio, tutto sommato sobri nella scrittura e meticolosamente piani senza mai per questo suonare banali nella composizione: si sentano le ampie finestre strumentali aperte nel quasi-recital di Lake Song (da sottolineare lassoluta preponderanza del tema acquatico), puntinismo ossianico donato ad un vecchio brano folk anni 60. Di Picaresque, e della sua sovraccarica estetica vittoriana, rimane solo un pallido ricordo, in una splendida Cavalry Captain (un colorato acquarello narrativo da seguire meticolosamente con testo a fronte) che fa agghindare a festa unorchestrina di ottoni: dalle perlustrazioni più potabili di The Crane Wife nasce, per partenogenesi, lindie folk da colpo al cuore di The Wrong Year, con riff di elettrica quasi smithsiano, e lo scrigno di delizie alt-pop di Philomena (come dotare i Belle & Sebastian di un immaginario glam). Si incappa, ancora, in qualche manierismo di troppo (Mistral è la marchetta R.e.m. di turno). Poi ci si rialza, con il sincero sorriso di un bimbo finito gambe allaria per essere scivolato sul fango: e la fine altro non è che un nuovo inizio (A Beginning Song).
Mai, allora, cedettero: mai, forse, tradirono loro stessi. A babordo, vicino alla santabarbara, sottocoperta, sul pulpito dei predicatori, Colin Meloy e compagni di bagordi e di virtù sognavano capre.
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