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R Recensione

6,5/10

Jaga Jazzist

Pyramid

A proposito di combo micidiali, ecco una notizia che in tempi normali riempirebbe i rotocalchi di genere di tutto il mondo: i Jaga Jazzist di Lars Horntveth che escono per la Brainfeeder di Flying Lotus. Un mondo alla rovescia!, scuotono la testa i puristi. L’evoluzione naturale di un percorso lungo più di venticinque anni!, rispondono gli affezionati di lungo corso, non per ultimi quelli che avevano salutato la paventata “svolta sintetica” del precedente “Starfire” (2015) non come un affronto ad un glorioso passato, ma come un necessario arricchimento di un percorso artistico in continua e apparentemente inarrestabile progressione. Ci si è messa poi la pandemia di mezzo, a rovinare le circostanze del bentornato discografico del magnifico ottetto di Tønsberg (l’uscita del nono “Pyramid”, originariamente prevista per il 24 aprile, è in seguito slittata al 7 agosto), autonomamente prodotto e registrato in uno studio svedese in infuocate session da dodici ore l’una lungo un arco di tempo di appena due settimane: quel che si dice metodo e costanza. E un pizzico di calcolato marketing, perché no: l’indifferente noncuranza di chi (benedetta autopromozione!) sfodera i sempreverdi compatrioti Ståle Storløkken e Out To Lunch accostandoli a Tame Impala, Todd Terje e Jon Hopkins, snocciolando citazioni a Isao Tomita e Fela Kuti e alludendo ad una non meglio precisata “internazionalizzazione” del suono. Cosa non si fa per suscitare un po’ di interesse…

Pyramid” è, molto più semplicemente, la più fedele approssimazione formale della scrittura-suite che ancora mancava, nella sua versione esplicita, nella discografia dei Jaga Jazzist: quattro lunghi brani, da leggersi ed intendersi rigorosamente in crescente completamento, come – per l’appunto – blocchi indipendenti di un tetris piramidale. A dispetto di una certa compattezza strutturale, esteriore, a non aver registrato sostanziali miglioramenti è tuttavia la scrittura dell’ensemble, la cui disomogeneità si è fatta caratteristica costante e vieppiù pervasiva da “One-Armed Bandit” (2010) in poi. In un brano come “The Shrine”, la convivenza a stretto contatto di invenzioni straordinariamente felici (l’epica segmentazione della head nu jazz per ottoni, la delicata ed inesorabile crescita del contrappunto sintetico, una glossa per tenui arpeggi tortoisiani di chitarra) e di deragliamenti nel kitsch (tastierone così strombazzanti da ridurre la vecchia “Oban” ad uno sketch da stand up comedy) dà vita ad una composizione sinfonica non bella nel senso stretto del termine, ma che nel bizzarro postmoderno trova pienamente senso di essere. “Apex” aumenta ulteriormente la posta in gioco, decostruendo l’hard boiled a colpi di synth-wave carpenteriana, pirotecniche arrampicate fusion-funk da retromaniaci e possenti chitarre fluorescenti. È però nei quasi quattordici minuti dell’iniziale “Tomita” che si raggiunge un invidiabile punto di equilibrio: dopo cinque minuti di solenne crescendo calligrafico, tra scandinavian cool e algido minimalismo, comincia lentamente a bruciare la fiamma di una slide guitar che vorrebbe richiamare la storica “All I Know Is Tonight” e che, invece, decolla cinematograficamente sulla ripresa space-jazz del tema iniziale, trainata dall’inarrestabile basso di Even Ormestad.

E per quanto riguarda il famigerato passaggio a Brainfeeder? Le conseguenze immediate di questa scelta, curiosamente, sono più direttamente percepibili nel singolo scelto per presentare il disco, “Spiral Era”: un post rock orchestrale digitalizzato in Technicolor e giocato su semplici scavallamenti incrociati di tonalità, la cui pasta armonica, tuttavia, sembra confinata in un limbo mediano che le impedisce di lievitare e non le consente di decrescere. Sono otto minuti in cui ci si aspetta da un momento all’altro che accada qualcosa, ma nulla davvero succede: l’esibizione passiva di un cavallo di razza lucidato alla perfezione, ma fatalmente imbrigliato, a cui solo nei minuti finali viene concesso un moderato trotto di riscaldamento (la sola sezione ritmica di Ormestad e Martin Horntveth esposta a nudo). La considerazione interessante è che, non casualmente, si tratta di una tara ricorrente degli artisti del roster Brainfeeder, particolarmente evidente nelle ultime prove di – per citare un paio di nomi! –  Flying Lotus e Thundercat.

Se si tratti di temporaneo effetto collaterale o di un difetto più strutturale solo il tempo potrà dirlo. Nello spazio soggettivo del giudizio critico, quest’annotazione si traduce in un leggero ridimensionamento della valutazione complessiva.

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